Speaker Cenzou e «Ammostro»
romanzo di formazione hip hop

spekaer cenzou in una foto di pino miraglia
spekaer cenzou in una foto di pino miraglia
di Federico Vacalebre
Giovedì 28 Dicembre 2017, 10:45 - Ultimo agg. 12:49
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È quasi la risposta sudista e hip hop a Costretti a sanguinare questo Ammostro. Dove Marco Philopat raccontava come un urlo il movimento punk italiano visto dalla Milano da bere anni Ottanta nel suo autoprodotto romanzo di formazione Speaker Cenzou narra con la forza di un groove la generazione rap newpolitana. Storia di pancia e di testa, voce di dentro e di fuori, di radici e di ali, d'America e orgoglio per le proprie radici veraci. Come in un flusso di coscienza, come in un diario scandito dal ritmo del flow, come in una chiacchierata-jam session di piazza e di vico, Vincenzo Artigiano (così all'anagrafe), classe 1976, racconta la sua storia non per bearsi di essa, ma per (ri)portarci nel cuore della città porosa, dove J. Dilla e Pino Daniele si diedero metaforicamente la mano dopo che Afrika Bambataa e Enzo Avitabile (che non a caso firma la prefazione) l'avevano fatto realmente.

Il soul brother parla di «soldati rappatori» e Cenzou, Vicienzino-Vicienzone insomma, li racconta uno per uno, incontro per incontro, agorà per agorà (piazza San Gaetano, dove «o tiempo è d'oro», cantava il Lazzaro Felice, è il luogo di partenza, quindi arriveranno piazza del Gesù, Officina 99, la Flying Records....), lasciando poi ai singoli protagonisti il microfono, in modo che l'amarcord personale diventi corale, collettivo.

Ma qui non c'è il lasciarsi sanguinare del nichilismo post-no future, quanto la scoperta di una lingua e di una disciplina, il rap, che diventa arma di assalto gioioso al cielo negli anni della Pantera, dell'onda studentesca, dei centri sociali e delle battaglie di versi. Speaker è un altoparlante che spara rime d'ammore e di lotta, che incontra chi deve incontrare (non li cito, ci siete tutti, ci siamo tutti, anche chi non c'è più, soprattutto chi non c'è più). Se Bologna è la prima capitale dell'hip hop italiano, se Milano saprà esserne il cuore managerial-industriale, Napoli nè è il polmone creativo, il cervello ribelle, il sesso scandaloso. La vicenda di un «ragazzo un po' cicciotello» che con «le sue strane passioni risultava così atipico, così fuori luogo, così troppo con la sua strana musica», accompagna il sogno condiviso da tanti di un rinascimento proclamato e troppo presto archiviato, scandisce il beat della rap wave vesuviana che risponde a James Brown e Sly Stone a suon di Mario Merola e James Senese.
 
Ammostro, anzi «ammostrissimo», il racconta sta come un mostro, pieno di «sugo»: anche lo slang, come il suono, cerca di non farsi esterofila sottomissione: «Il freestyle diventa quasi un recupero della tammurriata, un canto sul tamburo, vissuto sul piede del ritmo, come volevano i greci, un'improvvisazione vera e non una formula ad effetto, preconfezionata», riflette con fare da etnomusicologo postmoderno Avitabile.

I primi passi sono quelli più sentiti, dal centro storico arriva una scansione inedita, inattesa, eppure a lungo covata. Nel 1996 il ragazzo ha 19 anni, ha lasciato la scuola (anzi è la scuola ad aver lasciato andare lui, a non aver curato il suo talento vulcanico) e sta per pubblicare il suo primo album, «Il bambino cattivo», nessuna mimesi da gangsta rap, anzi, tanto che persino Radio DeeJay si impossessa di «L'ultima parola»: è l'estate più bella della vita di un ragazzo che racconta tutto, partendo dalla famiglia, da quel padre tassista che stava andando a sbattere contro un palo quando in piena corsa gli confessai che, sì, conoscevo Cenzou; che, sì, mi interessava quello che aveva appena iniziato a fare; che, sì, quella passione poteva diventare un lavoro, lo scugnizzo non stava solo pariando.

Senza pretese letterarie le quasi trecento pagine divise con Krom, writer, poeta hip hop verace, membro della Hardcore Crew e del collettivo Bagnoli Kingz, arrivano sino ai giorni nostri, al progetto di fare uscire, ormai 22 anni dopo, una versione «reloaded» di «Il bambino cattivo»: più dei suoni, più degli incontri, più delle star e dei carneadi citati, conta l'umanità messa in campo, la confessione di aver vissuto, e ora anche di essere dimagrito (di corpo e non solo) insieme all'elaborazione di un particolare adattamento flegreo della starwarsiana filosofia della Forza.

Sottocultura fiera di essere tale, riconoscente però verso i veri maestri, di strada e non, l'arte rap newpolitana ammette negli aedi, nei cantastorie, nei percussautori della scuola partenopea i suoi precursori, ma poi reclama il diritto all'estremo campionamento, all'eterno remixing, alla supremazia della parola, d'ammore e di lotta, in dialetto, in italiano, in uno scombinato inglese. In principio era il verbo: quello di San Gaetano, dove o tiempo è d'oro. Vai Cenzou, vai mo', vai ancora (e occhio al peso, stai leggero che è meglio).
 

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