Favole dietro le sbarre,
così la pena riabilita

Favole dietro le sbarre, così la pena riabilita
di Giuseppe Pecorelli
Martedì 12 Giugno 2018, 06:15 - Ultimo agg. 07:18
3 Minuti di Lettura
«Quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi, gli ho detto: ho intenzione di raccontarvi favole. Pensate alla reazione. A ben vedere, però, le raccontiamo sempre. Anzi, l’unico modo per sopravvivere è raccontarle. Abbiamo iniziato con «La bella e la bestia». La bestia non è forse un prigioniero, un condannato? E viene imprigionata anche Bella, che paga le colpe del padre come tanti detenuti condannati per le proprie origini. Ma quando Bella vede la Bestia, capisce che in lui c’è del buono».

Lo spiega lo psicologo cetarese Pietro Crescenzo, nel secondo convegno sul tema «Liberare la pena», organizzato, alla colonia San Giuseppe, dalla cappellania della casa circondariale di Fuorni, la Caritas diocesana e l’associazione «Migranti senza frontiere», i cui aderenti fanno volontariato attivo in carcere. Il titolo dell’incontro è anche il nome del progetto che la Caritas italiana ha lanciato nel 2016 come proposta per agevolare il reinserimento sociale dei detenuti e rendere più efficace l’attuazione di misure come la detenzione domiciliare, le pene alternative al carcere, l’affidamento. Ebbene Crescenzo, da qualche mese, incontra gli ospiti della Domus Misericordiae di Brignano, struttura di accoglienza e ospitalità per detenuti soggetti a misure a pene alternative alla detenzione. «Dal racconto – prosegue – da quella che noi chiamiamo “narratologia”, siamo passati alla creazione di gruppi, in cui i partecipanti hanno potuto spiegare il dolore di non vedere i propri figli, la famiglia. È sorta una domanda: ne è valsa la pena?».

Gli incontri con lo psicologo, una terapia di gruppo, sono uno degli strumenti utilizzati alla Domus, guidata da don Rosario Petrone, cappellano del carcere e fondatore di Migranti senza frontiere, per recuperare ed includere nella società chi ha commesso un errore. «Quando parlavamo di liberazione della pena – ricorda ai presenti, tra gli altri il direttore del carcere di Salerno, Stefano Martone, ed il vice commissario della polizia penitenziaria, Grazia Salerno – mi prendevano in giro: volete liberarli tutti? Quello che posso dire, da sacerdote, è che Dio si incontra anche in carcere, forse ancora di più. Qui trovi l’umanità che ha sperimentato il male, ma cerca il Signore. Le confessioni più belle della mia vita le ho fatte in prigione». E racconta un’esperienza simile anche don Virgilio Balducchi, sacerdote bergamasco che ha ricoperto il ruolo di ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, ideatore, a livello nazionale, del progetto «Liberare la pena», che oggi la Caritas italiana porta avanti in 35 città italiane.

«Quando ho iniziato la mia esperienza – dice il sacerdote, per vent’anni cappellano al carcere di Bergamo – sono partito da una domanda: che ci sto a fare io qua, in prigione, da prete? Alcuni mi dicevano: non perdere tempo con questa gente. L’interrogativo sul mio ruolo continua a tormentarmi. Ho riflettuto sul fatto di credere in un maestro, Gesù, giunto per cercare la riconciliazione. In carcere, chiedevo ai detenuti: hai parlato con qualcuno del male commesso? Sai come riparare? E tutti mi dicevano di no». La chiave per il reinserimento sociale è concedere una responsabilità minima. «Dobbiamo evitare – spiega don Balducchi – che il carcerato resti relegato alla propria cella, concedendogli la possibilità di essere migliore. Vale per tutti: per chi espia la propria pena in cella e chi ai domiciliari. Se la detenzione non fa comprendere il male fatto e non suscita la voglia di tirar fuori la parte migliore di sé non serve. Ma per percorrere questo cammino occorre accettare le sconfitte e le contraddizioni di alcuni detenuti, il ritorno all’errore».
© RIPRODUZIONE RISERVATA