Fondi Ue, sgravi e cantieri: l'Italia che non sa spendere

Fondi Ue, sgravi e cantieri: l'Italia che non sa spendere
di Nando Santonastaso
Sabato 8 Settembre 2018, 08:00 - Ultimo agg. 12:55
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L'ultimo in ordine di tempo ad aver dovuto confermare l'esistenza del problema è stato il nuovo ministro dell'Economia Giovanni Tria. Presentando il nuovo accordo di partenariato pubblico-privato, annunciò che nel bilancio dello Stato sono previsti 150 miliardi in 15 anni per gli investimenti pubblici già scontati nel deficit. Di essi ben 118 miliardi sono immediatamente attivabili ma «procedure complesse e capacità progettuale insufficiente» allungano a dismisura i tempi per il loro utilizzo e dunque per la realizzazione delle opere. Per la messa in pratica di interventi che costano sotto i 100 mila euro ci vogliono in media non meno di due anni, ma si arriva a 15 anni per le opere che superano i 100 milioni. Basta farsi un giro sulla banca dati «Visto» dell'Agenzia per la coesione territoriale, di cui da pochi giorni è nuovo responsabile Antonio Caponnetto, per averne un'idea a dir poco esauriente. Questi dati fotografano in maniera chiara perché in Italia tra l'annuncio della disponibilità di risorse e la loro utilizzazione passa più di un oceano.

Non è un fenomeno limitato al Mezzogiorno come si potrebbe ritenere a prima vista, sulla scia di un battage politico-strumentale che individua nei ritardi e nelle inadempienze politico-amministrative del Sud la causa principale del divario. Lo si può sottolineare anche nel giorno in cui da Bruxelles arriva l'aggiornamento trimestrale sui fondi europei spesi. La Commissione segnala che nonostante l'accelerazione degli ultimi mesi l'impegno di spesa delle risorse 2014-2020 dell'Italia per il 2018 resta in ritardo rispetto alla media europea (54% contro 62%) e che la spesa certificata, quella cioè effettivamente sostenuta finora, non supera il 13% con punte più basse al Sud. È vero come abbiamo ripetuto fino alla noia che i ritardi sono figli in particolare delle lunghe procedure di chiusura dei rendiconti 2007-13 e che finora l'Italia non ha dovuto restituire un euro all'Europa da quando sono nati i fondi strutturali. Ma che il dato sia la spia di una tendenza non proprio brillante è fuori discussione anche se poi, gratta gratta, si scopre che il Paese ce l'ha quasi per vizio di non riuscire a spendere tutti i soldi di cui pure dispone.
 
Prendete ad esempio le infrastrutture: il 35% dei 137 miliardi impegnati (previsti cioè nei bilanci pubblici, ma non materialmente erogati) negli ultimi quindici anni per questo strategico settore, ovvero 48 miliardi di euro, non sono stati spesi per annullamento o revoca delle gare giudicate irregolari. La peggio anche stavolta è toccata al Sud: stando ai dati dell'Ufficio valutazione impatto del Senato, in quest'area del Paese si sale al 54% del totale dei miliardi rimasti nel cassetto. E che sia il Mezzogiorno ad avere drammaticamente bisogno di infrastrutture, a partire dalla mobilità e dai trasporti, è un dato di fatto.

Siamo di fronte ad un paradosso incredibile se si considera che pur essendo cresciute nell'immediato periodo post-crisi le risorse destinate ad opere pubbliche, la spesa effettiva è diminuita del 3%. Basta forse un dato per essere ancora più chiari: solo un decimo delle 9.400 opere chieste dalle Regioni per contrastare il fenomeno del dissesto idrogeologico aveva alle spalle un progetto cantierabile, come fu accertato dal team di Italiasicura insediato a Palazzo Chigi tre anni fa. Nella morsa costituita da un lato dalla farraginosità delle procedure burocratiche e dall'altro dalla incapacità progettuale degli enti locali si è consumata (e la cosa non sembra essere affatto finita lì) una delle clamorose contraddizioni nazionali: avere le risorse ma non sapere spenderle o, peggio, non esserne all'altezza.

La stessa triste sorte sembra annunciata per misure di enorme concretezza come il cosiddetto «sismabonus» che punta a incoraggiare e sostenere le famiglie che vogliono mettere in protezione i loro immobili dalle conseguenze di terremoti. Un rischio serissimo: lo scorso anno l'Ance, l'Associazione nazionale dei costruttori edili, certificò che in Italia sono 11 milioni gli edifici che si trovano in aree ad alto rischio sismico e 19 milioni le famiglie che li abitano. Ebbene, la misura introdotta dalla legge di Bilancio 2018, correlata ad una di analoga importanza come l'ecobonus per il risparmio energetico degli immobili, è passata finora quasi del tutto inosservata pur garantendo sgravi fiscali con sconti fino all'85%. Perché? Secondo gli esperti, il presupposto che si debba comunque partire dall'anticipazione delle somme da parte dei privati per poter godere del beneficio fiscale, si sta rivelando un limite insuperabile anche alla luce de perdurante atmosfera di incertezza economica che continua a pesare proprio sulle famiglie. Al punto che si sta discutendo presso le associazioni di categoria di come migliorare l'impatto della legge e far risparmiare allo Stato i tanti soldi (188 i miliardi finora) spesi per gli interventi di ricostruzione e messa in sicurezza delle aree colpite da terremoti.

Il guaio è che proprio in questi giorni è scattato l'ormai periodico allarme sull'affidabilità delle scuole di ogni ordine e grado e ancora una volta ci si sta interrogando su come mettere in sicurezza tutti gli edifici che presentano rischi: l'utilizzo del «sismabonus» in un Paese che è quasi per intero sotto l'incubo di scosse di terremoto potrebbe essere la soluzione ma nessuno sembra essersene occupato finora. E adesso che il nuovo anno scolastico sta per iniziare sembra troppo tardi per un piano di emergenza. Paradossi, appunto, all'italiana.

Come quello relativo all'attuazione della legge 488, concepita negli anni '90 per sostenere le aree depresse della penisola, come una sorta di prolungamento della Cassa per il Mezzogiorno visto che i problemi maggiori venivano dal Sud.

Era rivolta alle imprese e finanziata ogni anno, a condizione che gli incentivi fossero una garanzia di occupazione per lavoratori che a causa della crisi avrebbero altrimenti perso ogni speranza di restare al lavoro. È finita con le imprese che hanno subìto la revoca dei finanziamenti ottenuti perché incapaci di rispettare gli obblighi contratti a suo tempo, quando cioè non c'erano avvisaglie di nuove depressioni economiche. Dal pasticcio burocratico che ne derivò, è nata una serie infinita di contenziosi tutt'altro che conclusi anche dopo anni e anni di dicussioni.

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