Frasca: «Io, corrispondente di Beckett che mi scrisse anche dopo la morte...»

Foto di Dino Ignani
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di Donatella Trotta
Sabato 22 Dicembre 2018, 19:32 - Ultimo agg. 21:14
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Napoli, primavera del 1990. Nella buca della posta Gabriele Frasca trova una busta che lo fa sobbalzare: è di Samuel Beckett, con cui lo studioso napoletano è in corrispondenza dal 1983. Ma il premio Nobel per la letteratura è morto circa sei mesi prima, il 22 dicembre del 1989. E questa lettera ha il sapore di un coup de théâtre dell’assurdo. Un guizzo postumo, simile alla suspense del film di Giuseppe Tornatore La corrispondenza: «Ebbi un tuffo al cuore» ricorda Frasca rivelando per la prima volta al «Mattino» i dettagli del suo legame con il geniale autore di Aspettando Godot. Un’emozione acuita dallo stupore: perché quell’ultima missiva circolare chiedeva a Frasca di mettersi a disposizione di James Knowlson, grande studioso e amico di Beckett, che era stato autorizzato a scriverne la biografia. Le lettere di Frasca, gli spiegò difatti successivamente Knowlson, erano state ritrovate fra le poche che Beckett conservava... «Una doppia emozione», ammette Frasca ripercorrendo lo snodarsi del loro rapporto epistolare e di un intreccio di relazioni intellettuali sul filo delle affinità elettive radicate, in àmbito anglosassone, ma anche francese e tedesco, in un grande amore per la lingua e la cultura italiana. Una civiltà nella quale Napoli gioca un ruolo non secondario…

Ad un anno dal trentennale dalla morte di Beckett, cosa rappresenta questo corpus epistolare di una ventina di missive per Frasca?
«Non mi sarei mai aspettato – continua Frasca - che quelle nostre lettere, le quali per me naturalmente contavano tanto, potessero significare qualcosa anche per il mio corrispondente. Magari gli avrò ricordato la passione mai sopita per la nostra lingua e la nostra cultura, che aveva assimilato sin da giovane al Trinity College. Beckett è stato infatti il prototipo dell’intellettuale europeo, capace di attraversare lingue e culture. L’inglese, il francese, il tedesco... E fra le sue lingue», aggiunge Frasca, «l’italiano occupava un posto particolarmente importante. Amava (e citava) molto Dante, la cui Commedia ha letto e riletto durante tutta la vita, e Leopardi. Di entrambi declamava a memoria i versi agli amici (come faceva con gli altrettanto amati Goethe, Shakespeare, Verlaine, Yeats). Aveva poi letto  Machiavelli, Petrarca, Ariosto e studiato soprattutto Giordano Bruno e Giambattista Vico: questi ultimi due su indicazione del suo “maestro” James Joyce, il quale Joyce, neanche a dirlo, a Dublino aveva preso lezioni di canto dal napoletano Michele Esposito, padre di quella Bianca che sarebbe poi stata l’adorata insegnante d’italiano del giovane Beckett».

Un po’ di Napoli, insomma, entrò anche nella vita dei due grandi espatriati irlandesi...
«Già. Tanto che Bianca Esposito – sottolinea Frasca - sarebbe persino diventata il personaggio di un racconto del giovane Beckett, Dante e l’aragosta - nella sua prima raccolta di racconti, Più pene che pane – impersonata dalla figura della prof Beatrice Ottolenghi.  Ma c’è un particolare al riguardo che a me ha sempre commosso…».

Quale?
«Beckett avrebbe portato con sé l’edizione della Commedia che gli era stata regalata proprio dalla “signorina Esposito” (come la chiamava lui, deferentemente, in italiano) finanche nella casa di riposo dove ha chiuso la sua vita, insieme, a mo’ di segnalibro, alla cartolina con cui costei gli aveva augurato, e sempre in italiano, una pronta guarigione per un malanno che l’aveva afflitto nel 1927...».

Ma come nasce, tra Napoli e Parigi, la corrispondenza tra l’allora giovane e versatile comparatista, saggista, traduttore, poeta e scrittore partenopeo e il grande dublinese altrettanto poliedrico? E in che lingua corrispondevano i due poliglotti?
Frasca mostra i preziosi cartoncini autografi di Beckett: «La prima volta scrissi nel 1983, ma non a Beckett, alla sua casa editrice francese, Les Éditions de Minuit, a proposito del suo romanzo Watt sul quale stavo lavorando. Semplicemente non riuscivo a trovare l’originale inglese (avevo solo la traduzione in francese), e chiesi allora a quelli di Minuit se sapessero darmi una dritta per procurarmi il libro. Non si comprava ancora in rete allora... Mi rispose Beckett in persona, e mi fece spedire una copia da John Calder. Ancora non ci posso credere!» In che lingua è andato avanti il carteggio? «Beckett conosceva ancora molto bene l’italiano, infatti una volta mi invitò a scrivergli anche nella mia lingua, ma preferiva rispondere in francese o in inglese. Sceglieva l’una o l’altra lingua, avrei capito dopo, a seconda dell’opera che stava scrivendo o traducendo in quel momento».

Gli argomenti?
«Le mie traduzioni, innanzi tutto; riuscì a vedere persino la prima versione di quella di Worstward Ho (Peggio tutta). Poi i saggi che cominciavo a scrivere su di lui... persino il titolo della prima monografia che gli ho dedicato, Cascando, in realtà lo concordammo. Ma fu così generoso da leggere persino le mie poesie», dice Frasca. Che dopo aver mandato a Beckett la raccolta Rame, ricevé da Parigi la seguente risposta, molto “beckettiana”, datata 14 dicembre 1984: «Grazie per la sua lettera del 15 novembre e per le sue poesie. Ne divino soltanto l’intensità e la bellezza. Il mio italiano – quello che ne resta – non è a questa altezza. E dunque mi saluti il caro vecchio liutaio, con un sorriso fraterno» (il “liutaio” è un riferimento ironico al personaggio dantesco di Belacqua, il pigro dell’Antipurgatorio, con cui Beckett identificava chiunque si dedicasse alla letteratura, a partire da se stesso, ndr).

E le traduzioni?
Frasca mostra un cartoncino del 7 gennaio 1987,che «Il Mattino» ha pubblicato in anteprima nell'edizione cartacea di oggi, dove Beckett suggella gli auguri del nuovo anno con la conferma della stima per il suo corrispondente: «Caro Gabriele Frasca, grazie della sua lettera del 24 dicembre ricevuta quest’oggi. Le sue traduzioni mi piacciono molto e le do volentieri il permesso di pubblicarle…». Frasca sorride con malcelata emozione, e ricorda: «Una manciata di quelle traduzioni, difatti, con la sua esplicita autorizzazione, apparve nel numero 95 di "Alfabeta" dell’aprile del 1987...»

Un bel riconoscimento, da parte di un autore di suo riservato e schivo, non è vero?
«Proprio così - ammette Frasca -. Tanto che il titolo originale della sua biografia autorizzata del 1996, che poi sarebbe stata curata proprio da me (Samuel Beckett. Una vita, Einaudi 2001, nella traduzione di Giancarlo Alfano), ricorda a tutti quanto Beckett si sia sentito Damned to Fame, “condannato alla fama”, dalla del tutto imprevista assegnazione del Nobel. Sì, per me quel breve contatto ha significato molto. Il fatto che l’autore vivente che stimavo di più mi avesse in qualche modo incoraggiato… beh, mi fece sentire come se avessi ottenuto il più grande riconoscimento al quale avrei mai potuto aspirare. Da quel momento, del resto, pur dedicandomi a tante altre cose, non ho mai più smesso di occuparmi di Beckett».

Già. Inevitabile chiedere come ha vissuto allora Frasca, alla luce di tutto questo, e sulla base della sua ampia e diversificata produzione scientifica, la vicenda del ricorso al Miur per l'idoneità alla I fascia che gli è stata negata, e la recente sentenza a suo favore da parte del TAR in cui, a detta del giudice, nella commissione che ha esaminato la sua produzione scientifica c'è stato nei suoi riguardi un vero e proprio "pregiudizio"?
Frasca, autore fra il resto di 16 monografie pubblicate con i più importanti editori italiani, 90 fra saggi e prefazioni, traduzioni e curatele come la prima seria edizione critica del capolavoro di un intellettuale dimenticato di calibro europeo come Mario Pomilio (Il Quinto Evangelio, per L’Orma editrice, ecc.), si fa serio. Ma risponde pacato: «Non credo si tratti di un pregiudizio nei miei confronti. Se mai c’è stato un pregiudizio, è stato di tipo culturale. Solo difatti in base a un pregiudizio di questo tipo si può provare a confinare nella (cito testualmente) “letteratura irlandese” giganti della cultura mondiale come Beckett e Joyce, col primo che scriveva fra l’altro in inglese e in francese, e il secondo che Dio solo sa quale lingua mai usasse. Così come solo un pregiudizio culturale può spingere a definire “infausta” una monografia, che ha fra l’altro ottenuto un prestigioso riconoscimento internazionale, solo perché si occupa di un autore come Gadda che, eccentrico come oramai appare, è già un bel po’ di tempo che si cerca qui da noi di ridimensionare. Così come ritenere che un ampio studio (La letteratura nel reticolo mediale), che segue l’evoluzione del concetto di letteratura dalle sue origini ai nostri giorni, riguardi “forme e fenomeni letterari che stentano ad imporsi nel panorama italiano”, è un esplicito pregiudizio culturale contro la filologia dei mezzi che ci hanno insegnato autori come Paul Zumthor, Giorgio Cardona, Eric Havelock, Walter Ong e altri. E poi è proprio la formulazione di quest’ultimo giudizio a suonare stonata...».

In che senso, nello specifico?
«Come se insomma un comparatista – sottolinea lo studioso - dovesse porsi la questione del “panorama italiano”, e non quello del suo ampliamento grazie agli stimoli che vengono da altrove. Se a questo poi si aggiunge che mi è stato imputato persino di avere nel mio stile di scrittura un periodo un po’ troppo ipotattico, o non mi si è “perdonato” di studiare le distopie profetiche di autori come Philip K. Dick fuori dei confini riduttivi del genere fantascienza, allora i conti tornano: il pregiudizio è contro tutto ciò che eccede (o eccelle…) il tono medio. E Dio non voglia che sia per davvero così, perché un’Italia tutta stretta intorno alle sue mediane e alla sua medietas rischierebbe di diventare nel giro di poco una provincia culturale. Mentre la vera modernità è anche questo: la perdita delle connotazioni nazionali. Anche in letteratura. E l’essenza (la grandezza) di ogni civiltà consiste proprio nell’ibridazione». Come dimostrano, tra gli altri, gli studi del filosofo e scrittore francese Michel Serres tra i quali il significativo saggio Il mantello di Arlecchino. «Il terzo-istruito»: l’educazione dell'età futura (Marsilio 1992). 
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