I ricordi di Rosa Russo Iervolino:
«A 10 anni in lacrime
per la Costituzione»

I ricordi di Rosa Russo Iervolino: «A 10 anni in lacrime per la Costituzione»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 16 Marzo 2019, 08:23 - Ultimo agg. 30 Marzo, 16:30
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La definisce una «strana famiglia», la sua. Un nonno faceva il vinaio nel porto di Napoli e l’altro invece era un barone: Arturo de Unterrichter von Rechtenthal, colonnello della Guardia di Finanza. Il padre, l’avvocato Angelo Raffaele, fu nominato cinque volte sottosegretario e otto ministro - dal governo Badoglio in giù; mentre la madre Maria, cittadina austriaca diventata italiana solo nel 1918, fu candidata ed eletta all’Assemblea costituente e alla Camera - dopo aver studiato a Trento e preso la laurea a Roma, in tempi in cui le donne al massimo frequentavano il Magistero. Ecco perché - spiega Rosa Russo Iervolino - «sono sempre stata un po’ più matta di quel che appare». 

Questione di anticonformismo? 
«Con una famiglia così, mai sarei potuta rimanere prigioniera di un modello. Una mamma moderna e intraprendente, che aveva sposato un uomo napoletano e tradizionalista; due nonni agli antipodi, seppure in perfetta sintonia; un’infanzia vissuta ascoltando i miei genitori che ci raccontavano del futuro di libertà che, con gli amici antifascisti, si proponevano di costruire una volta finita la guerra. Ditemi un po’ voi cosa poteva venirne fuori». 

Rosa Russo Iervolino. 
«Appunto. Ricordo ancora il giorno in cui venne approvata la Costituzione». 

Era una bambina. 
«Avevo 11 anni, mio fratello 7. Eravamo appena usciti dalla guerra, le aggressioni dei tedeschi erano quotidiane e insopportabili. Mamma e papà, convinti antifascisti, avevano sofferto sulla loro pelle le restrizioni che il regime prevedeva. In quella situazione, anche per noi bambini la Costituzione aveva un valore enorme». 

Rappresentava la libertà? 
«Non solo. Benché piccini, ci era ben chiaro che la Costituzione della Repubblica italiana avrebbe cambiato in meglio le nostre vite». 

22 dicembre 1947. 
«Pomeriggio indimenticabile. Mia madre voleva portarci in aula ad assistere alle votazioni, così chiese due biglietti per me e mio fratello. Glieli negarono, eravamo troppo piccoli per loro, che non sapevano quanto invece fossimo competenti e politicizzati». 

 

Quindi rimaneste fuori dall’aula? 
«Mamma ci portò in piazza del Parlamento, comprò due gelati e ci mise a sedere sulla scalinata: “Ragazzi, quando sentite suonare la campana, alzatevi in piedi, perché la Costituzione sarà stata approvata”. Così facemmo, come due soldatini. E non vi nascondo che, ancora oggi, quando passo di lì, ripenso a quel pomeriggio e mi commuovo.
Ho amato la politica fin da bambina, in cuor mio sapevo che quella sarebbe stata la mia strada». 

Con la sua famiglia viveva a Roma?
«Nel ’56 i miei genitori riuscirono a mettere da parte i soldi per iscriversi alla Cooperativa Montecitorio, e ad acquistare una casa; quella dove in pratica sono cresciuta. I nostri vicini erano personaggi come Pietro Amendola, Velio Spano...». 

Però è nata a Napoli. 
«In via Duomo. Dove si tornava ogni fine settimana: prendevamo il treno delle 18, che arrivava fino a Potenza - a bordo c’era mezzo parlamento, tra cui Emilio Colombo, che era l’ultimo a scendere». 

Sabato e domenica a Napoli. 
«Per la verità, mamma e papà rimanevano fino al lunedì; mio fratello e io invece rientravamo la domenica sera, perché il giorno dopo c’era scuola. I miei genitori a Napoli ci andavano soprattutto per lavoro, incontravano gli elettori, mantenevano i rapporti con la città». 

E voi a Roma da soli? 
«Macché. Già in treno venivamo sorvegliati. Partivamo da Mergellina, intorno alle 19, affidati al controllore, che poi era tal Gaetano Quattrone, ex autista del nonno. Gaetano doveva assicurarsi che durante il tragitto facessimo i compiti, che non riuscivamo mai a ultimare nei due giorni napoletani. Arrivati a Roma, poi, ci infilava in un taxi e si andava dritti a casa, dove ad accoglierci c’era sempre qualcuno della famiglia pronto a prenderci in consegna fino al martedì». 

Quando finalmente tornava la mamma. 
«È sempre stata una donna sui generis, mia madre; portava un cognome tedesco, ma si candidò all’Assemblea costituente, e alla Camera nella circoscrizione di Potenza e Matera. E poi ha girato il mondo, anche se alla fine non riusciva a stare lontana dalle sue montagne, pur amando con tutto il cuore il mare di Napoli. Tant’è che le vacanze si andavano a fare sempre in Trentino». 

A casa del nonno? 
«Certo. D’estate, ci si trasferiva a Trento, a casa sua, anche se mamma era di Borgo Valsugana, lo stesso paese di De Gasperi. E infatti si conoscevano da ragazzi, e Alcide passava anche lui le ferie lì. Un po’ alla volta, in quella regione arrivarono a fare le vacanze tutti i politici di spicco di allora, con le loro famiglie: dai Mattarella ai Gonella, tanto per fare un esempio. E così, anche il mese di agosto, per i nostri genitori diventava occasione di approfondimento politico». 

E voi ragazzi? 
«Raccoglievamo funghi. Ero piccola piccola e già distinguevo gli champignon dai finferli, quelli che a Napoli chiamiamo “chiuvetielli”. Devo dire che si trattava di un’attività alla quale mio padre guardava sempre con molto sospetto “Ma so’ sicuri ’sti funghi? Ce avessema ’ntussecà?”». 

Da buon napoletano, suo padre avrebbe preferito una pizza? 
«A casa nostra capitava quasi sempre di mischiare le tradizioni. E così succedeva di cominciare un pasto con gli spaghetti alle vongole e concluderlo con un bello strudel. Oppure, polenta e babà». 

Lei a quale delle due tradizioni si sentiva più legata? 
«Entrambe. Un po’ come mio marito, che bene si adattò a queste mescolanze». 

Vincenzo Russo. 
«Un uomo bellissimo. Peccato che avrebbe desiderato una moglie tutta casa e famiglia, e riteneva assurdo che con tre figli piccoli girassi l’Italia per stare dietro alle ragioni di un partito. Non fu molto contento neanche della mia elezione a parlamentare. Ma cambiò idea, quando diventai senatore nella sua regione, l’Abruzzo, e toccò con mano il mio impegno per quella terra». 
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