Daniele Sepe: omaggio a Barbieri
il Gatto con il sax e il cappello

Daniele Sepe 2019
Daniele Sepe 2019
di Federico Vacalebre
Sabato 23 Marzo 2019, 15:38
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«Dovrebbe essere il mio ventottesimo album, almeno sulla scheda per la stampa abbiamo scritto così, ma forse ne ho persi un paio per strada», racconta Daniele Sepe a proposito di «The cat with the hat». II Gatto con il cappello del titolo è Gato Barbieri, l'uomo con il sassofono e il borsalino, a cui è dedicato il lavoro: «Stavo entrando in sala con l'idea di rendere omaggio a Zappa, poi ho pensato che di omaggi a Frank ne sono stati già fatti tanti, ma nessuno per Gato». Il cinquattottenne musicista napoletano ha fatto dell'insegnamento del sax di «Ultimo tango a Parigi» il proprio segno distintivo: «Il suo sound era riconoscibilissimo, inconfondibile, marcato dalla sua terra e dalle sue origini. Lo stesso ho fatto io, sin dalla prima volta in cui, giovanissimo, sono entrato in una sala di registrazione». Ecco, allora, «The cat with the hat», disco partorito «con la fondamentale complicità di Hamid Drake, un batterista abituato a passare dal free di Chicago e New York a Bill Laswell e i Material», ma forte anche della complicità di Stefano Bollani e Roberto Gatto, che con l'argentino ci hanno suonato. Così, tra un ricordo e un bicchiere di vino, è venuto fuori un album corposo, ad alta gradazione, «che contiene un solo pezzo scritto da Gato, «Nunca mas», «ed un altro, ''Lunita Tucumana'', che lui aveva ripreso dal grande Atahualpa Yupanqui, e io da lui, e stavolta traduco in italiano affidandolo alla voce di Dario Sansone dei Foja».
Perché non frequentare di più il Gato compositore?
«Perché se vuoi sentire le sue cose ci sono i suoi dischi, il suo suono, anche se in passato ho accettato il confronto».
E, allora, come pagare questo tributo di affetto e riconoscenza?
«Scegliendo brani che lui avrebbe potuto frequentare, facendoli suoi, per l'area di provenienza geografica, per predisposizione melodica o politica».
Ecco, allora, il Cile del tuo/nostro amato Victor Jara con «La partida», la «Song for Che» della Liberation Music Orchestra con doppia batteria e doppio basso, il tema del kubrickiano «Spartacus», una canzone popolare boliviana («Montilla», intitolata a un generale bolivariano), la veracissima «Canzone appassiunata», una milonga ancora di Yupanqui, un tango classico, ma anche la sorpresa celtica di «Donne d'Irlanda» e «Odio l'estate» che diventa in mano a te inevitabilmente «Odio l'inverno».
«Proprio così, io con l'estate ci vado a nozze, come sanno gli amici che porto in giro per mare appena mi è possibile».
A proposito, che ciurma ha imbarcato questa volta il vascello che fu di Capitan Capitone e i suoi pirati sonici?
«Ho arruolato gli argentini e i brasiliani che erano con me ai tempi della Brigada Internazionale - Roman Gomez, Arlen Azevedo, Roberto Lagoa - e poi Lavinia Mancusi, i fidi Franco Giacoia e Piero De Asmundis e tanti altri, più ne siamo e più belli parimmo».
Dopo tanti dischi di canzoni un disco strumentale o quasi, jazz, o quasi.
«Di esercizi ginnici ce ne sono pochi, qui conta il piacere dell'improvvisazione che sa sublimare il richiamo melodico-sudista».
Altri artisti che, come Gato, e te, hanno fatto del loro sound un marchio indelebile?
«Tra i sassofonisti, me escluso, credo che l'unico vero barbieriano sia Jan Garbarek. Una voce inconfondibile la hanno, poi, Wayne Shorter e James Senese, Però potrei dire anche di Carlos Santana e della sua chitarra, che non a caso ha suonato con Gato, ma anche di Pino Daniele, che non a caso ha voluto Gato al suo fianco».
Magari il gioco sul classico di Bruno Martino serve proprio a ricordare il Gato «italiano».
«Proprio così: da ”''Sapore di sale'' di Paoli al Nero a Metà e a ''Modena'' di Venditti: anche lì lo riconosci ad occhi chiusi il Gatto con il cappello».

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