I ricordi di Ruggero Cappuccio:
«Io, uomo di teatro
grazie ai burattini»

I ricordi di Ruggero Cappuccio: «Io, uomo di teatro grazie ai burattini»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 1 Giugno 2019, 18:00 - Ultimo agg. 2 Giugno, 07:35
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Quando parla della sua infanzia, la definisce «sospesa», «atemporale», vissuta in «luoghi meravigliosi, tra libri antichi e testi rari, musica lirica, romanzi e letteratura». Una casa enorme, in uno storico palazzo di Portici, l'estro e la fantasia di nonna Rachele, l'inclinazione familiare alla vita notturna, le «furibonde» partite di calcetto in terrazza, un aranceto dolcemente profumato e uno straordinario «effetto luna park, dove l'aria del passato si respirava più di quella del presente». La racconta così, Ruggero Cappuccio, la sua vita da bambino - bravo e studioso, socievole ma non troppo - vissuta in serenità tra «nonne, nonni, zii e cugini, una quantità di relazioni quotidiane e colpi di scena continui». Lui, il direttore del Napoli Teatro Festival - regista teatrale, di lirica e cinema, autore di testi pluripremiati e tre romanzi (La notte dei due silenzi, finalista al Premio Strega, Fuoco su Napoli, La prima luce di Neruda) - sapeva che avrebbe fatto quel mestiere da quando aveva solo otto anni e - una mattina, a scuola, nel salone delle Carmelitane - scoprì il magico mondo dei burattini.
 
 

Le piacque?
«Ne rimasi affascinato. Era il teatro dei fratelli Ferraiolo, a Salerno. Per me fu una rivelazione. Ricordo che alla fine dello spettacolo vendevano pure alcuni burattini. Mi piacque talmente tanto, che cominciai a appassionarmi anche alle marionette e alle guarattelle, che poi hanno fatto la loro comparsa in alcuni miei lavori teatrali».

Che cosa faceva a Salerno?
«Ho vissuto lì circa un anno, mio padre si spostava spesso per lavoro, e noi con lui. Una delle ragioni per cui, alla fine, sono andato a stare dalla nonna nella sua casa di Portici».

Lontano da mamma e papà?
«In realtà doveva essere per un breve periodo, ma alla fine sono rimasto a vivere con lei anche quando la mia famiglia rientrò a Napoli, dopo l'ennesimo trasferimento».

Come mai non tornò con i suoi genitori?
«Intanto, c'è da dire che abitavamo molto vicini e mamma e papà, e i miei fratelli, li vedevo quasi ogni giorno. La verità è che ho sempre amato le solitudini, e la casa di nonna Rachele era talmente grande da potermi concedere questo lusso».

A Portici?
«Un intero palazzo del '600, acquistato dai miei antenati. C'erano due pianoforti e una sterminata collezione di libri antichi, testi rari dell'Ottocento, raccolti con cura dal mio bisnonno».

Ambiente suggestivo.
«Un'atmosfera a tratti surreale, si capiva che in quelle stanze il passato era molto più incarnato del presente. C'erano foto, oggetti, storie, ricordi. Davanti agli occhi, mi scorrevano le immagini e i volti di chi aveva vissuto lì prima di me e poi non c'era più. Tutto questo mi rendeva molto chiara la percezione della fragilità della vita, e la assoluta relatività della centralità umana».

Bambino un po' pessimista.
«Consapevole, direi. Perché poi mi divertivo moltissimo con i ragazzini della mia età, partite di pallone memorabili. Stavo molto bene con la nonna: una donna forte e seducente, con una spiccata propensione al restauro. Le piaceva risistemare le case di famiglia, oltre a tenere il baricentro del palazzo di Portici, dove gestiva almeno una trentina di inquilini. Si occupava di tutto: dall'amministrazione al tubo che perdeva. E poi c'era la casa di San Mango».

Nel Cilento?
«Ho un amore incommensurabile per quella zona. La famiglia di mia madre, Del Giudice, acquistò lì una proprietà e nonna Rachele ha passato anni a ristrutturarla, anche sotto i bombardamenti. Per lei rappresentava il rapporto con la terra, l'amore per le persone semplici, i pranzi con i contadini, la frutta da raccogliere. Valori imprescindibili, che è riuscita a trasmettermi fino in fondo».

Quali ricordi ha di San Mango?
«Le vacanze d'estate che duravano tre mesi, i castagni, le querce, il grano, le ciliegie, gli animali, le ore passate a chiacchierare con il colono - si chiamava Antonio Monaco, nume tutelare della nostra proprietà, sempre foriera di grandi divertimenti. Anche lì si viveva un po' fuori dal tempo».

In che senso?
«Niente televisore, tanto per cominciare, e in tutto il paese c'era solo una piccola sala cinematografica, tipo Nuovo cinema Paradiso. Cento lire per entrare, me lo ricordo ancora».

Come passavate il tempo voi ragazzi?
«Il divertimento era affidato alla nostra inventiva personale. Vuoi che fossimo figli di persone benestanti o di contadini, si stava tutti insieme e senza un soldo in tasca. Vi assicuro che non ne sentivamo la mancanza e non ci si annoiava mai».

Un'infanzia «sospesa» l'ha definita, la sua.
«Sospesa e atemporale, direi, in cui anche i grandi miti che cominciavano a affacciarsi negli anni Settanta e Ottanta ci toccavano poco o nulla. Atemporale come il Cilento, d'altronde, dove già arrivare era un'avventura. C'era solo una corriera, che partiva da piazza Guglielmo Pepe e ci metteva quattro ore e mezza».

Viaggio lungo.
«Senza fine. E all'arrivo assistevi a scene arcaiche».

Quali?
«Donne scalze che andavano alla fonte portando sulla testa grandi anfore per raccogliere l'acqua, o ragazzini che andavano in giro con le pecore come pastori. E poi il cibo cotto nel camino, sul treppiedi, le lenzuola scaldate con lo scaldaletto perché non c'erano i termosifoni. Devo ammettere che la nostra è stata una generazione straordinariamente privilegiata».

Privilegiata perché?
«Abbiamo avuto la fortuna di conoscere modi di vivere che hanno caratterizzato l'umanità per migliaia di anni, appena prima che tutto cambiasse».

Una vita a metà strada, insomma.
«Per dirla con il Gattopardo: Sono nato a cavallo tra due epoche e mi sento perfettamente a disagio in tutte e due».
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