La maionese gialloverde è impazzita

di Mauro Calise
Lunedì 3 Giugno 2019, 08:00
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A furia di sbattere in direzioni diverse la maionese governativa sta impazzendo. Al di là probabilmente dei desideri reconditi dei due vicepremier che, fino a prima delle elezioni europee, colpivano separati ma marciavano uniti. Ma che rischiano adesso di trovarsi, per opposti motivi, sbalzati dalla cabina di regia. Salvini perché sta girando a mille e Di Maio perché ormai gira a vuoto, i dioscuri sembrano costretti a seguire le orbite interne dei rispettivi partiti, piuttosto che la strategia del contratto in condominio rissoso ma molto lucroso.

Il cambiamento più visibile riguarda i Cinquestelle, dove il referendum semi-bulgaro gestito dalla Casaleggio & associati ha visto scarsa partecipazione e ancor più scarso entusiasmo nel ribadire la fiducia al Capo. Con i due big - Fico e Di Battista - che se ne sono stati alla finestra, il primo esplicitamente e l'altro sardonicamente. E con il corpo dei militanti che non sa dove andare a sbattere la testa. Tanto, infatti, il tandem demiurgico Grillo & Casaleggio senior era stato geniale nel forgiare, dal nulla e in cinque anni, il maggior partito italiano, tanto si è rivelato fallimentare nel tradurre per riprendere i due libri di Jacopo Iacoboni l'esperimento in esecuzione. La formula del partito cybercratico una facciata di partecipazione dal basso ma con la gestione ipercentralizzata da un server poco trasparente sta implodendo. E il collante del potere, affidato al drappello ministeriale capeggiato da Di Maio, difficilmente impedirà la ribellione della base e dell'ala dei duri e puri.

Ma anche per Salvini, con la vittoria per Kappaò, le cose paradossalmente si sono complicate. Fino a ieri, l'exploit della Lega appariva come il risultato del one-man show del suo capo. Ma ora che i voti virtuali sembrano tramutarsi in voti veri, diventa più difficile tenere a bada le seconde e terze file del partito che, dopo decenni trascorsi ad arare le amministrazioni locali del Nord, vedono a portata di mano una discesa in massa su Roma. Consapevole del nuovo clima, il ministro dell'Interno ha premuto senza esitazione il piede sull'acceleratore delle richieste all'alleato. Mettendo in conto che si possa arrivare, anche in tempi brevi, alla rottura.

Così il boccino è finito sui due tavoli dell'esecutivo cui spetta, in termini istituzionali, la decisione sulla crisi: quello di Tria e quello di Conte. Il ministro dell'economia sta cercando di gestire il rapporto con l'Europa nel modo meno traumatico possibile. Ma non potrà continuare a farlo, se Salvini continua a alzare la posta, e la voce. Né sembra che possa farlo Conte. Il segnale che il Presidente del Consiglio ha avuto dal Quirinale è che, nel caso si aprisse la crisi, non ci sarebbero i margini per un reincarico. L'avvocato se ne tornerebbe a casa. E a quel punto, molto probabilmente, con tutto il governo. E il Parlamento.

In una situazione ordinaria, sarebbe un esito pressoché obbligato. Ma come già si è visto dalle prime, tempestive impennate dello spread non siamo in una situazione ordinaria. Una crisi in piena estate, con le elezioni alla vigilia del varo di una pesantissima finanziaria, potrebbe avere effetti catastrofici sui nostri conti pubblici. E senza nessuna garanzia che, dopo la tempesta del voto, si troverebbe la quiete. Si sa che gli scenari possibili sarebbero soltanto due. Il primo, che molti danno per scontato, è che la Lega faccia cappotto. Alleandosi con Fratelli d'Italia e, forse, addirittura lasciando fuori i berlusconiani. I sondaggisti ne sono convinti. Un po' meno i politologi, che in questi ultimi anni hanno visto una tale volatilità dei votanti, e risultati così diversi tra diversi tipi di elezione, che son diventati peggio di San Paolo. Probabilmente, fosse solo per scaramanzia, la pensa così anche Salvini. Che, accanto all'apoteosi, deve mettere in conto pure il secondo scenario. Un risultato sotto le aspettative, i Cinquestelle e il Pd in ripresa, e la Lega che si ritrova in mezzo al guado. Forse starà rimuginando il Capitano sarebbe stato meglio non stravincere.

Se poi alle incognite drammatiche del quadro politico si aggiunge la faida interna che sta facendo implodere il massimo organo di autogoverno della magistratura, il rischio che la crisi dell'esecutivo si trasformi in crisi di sistema comincia a diventare inquietante. È in questi casi che la parola passa, in modo determinante, al Quirinale. I cui poteri di intervento possono, in situazioni eccezionali, espandersi a fisarmonica per supplire alle carenze del parlamento e dei partiti. Successe così, otto anni fa, con Giorgio Napolitano, al punto che si parlò nei fatti di repubblica semipresidenziale. Il carattere di Mattarella è diverso. Ma non gli manca certo l'autorevolezza e il coraggio per fare avvertire, ai naviganti nella bufera, il peso dell'organo cui spetta in ultima istanza, a norma di costituzione, il timone del Paese.
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