di Mario Ajello
Martedì 4 Giugno 2019, 00:07
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Non c’era Milan Kundera. Ma è come se ci fosse stato nella sala di Palazzo Chigi. Perché la foto più nitida, della scena in cui Giuseppe Conte rilancia ma allo stesso tempo arretra nella sua premiership mai pienamente posseduta, l’ha scattata l’autore dell’«Insostenibile leggerezza dell’essere». Quando scrive nel suo capolavoro (non l’unico): «Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle ci si vuole abbandonare ad essa». 


La sintesi di Conte in modalità il passato di un’illusione, ovvero la Fase 1 è finita e la Fase 2 vorrei che ci fosse ma non dipende da me, sta in quel flebile tentativo di fare qualcosa - e il dipinto guerresco alle sue spalle nella sala potrebbe fungere da doping e non ci riesce - ma in un accordo ormai poco praticabile con i due vicepremier. Specialmente con Salvini. 

<HS9>Il quale, mentre Conte parla nella sala del governo, su Facebook lancia un messaggio per dire: lui faccia il suo, ma io vado avanti come voglio io che è quello che piace alla gente e infatti «ho avuto 9 milioni di voti». E appena gli leggono questo messaggio poco rassicurante, Conte replica con un moto di stizza: «Ah, allora ci possiamo credere...». Ma lascia uno spiraglio, alla propria sopravvivenza, quando - mai in maniera netta come questa volta - Conte giura che con i 5 stelle non ha mai avuto a che fare, «sono indipendente», indipendentissimo, «e a volte le mie scelte li hanno fatti arrabbiare»: il che potrebbe somigliare a una, tardiva ma volenterosa, captatio benevolentiae nei confronti dei leghisti, a cui offre anche la possibilità del rimpasto. 

<HS9>Il premier ha usato toni forti e severi nei confronti dei vicepremier intenti solo a fare propaganda e baruffa, ma la solitudine da cui provengono queste parole le infiacchisce. E le precipita in un surreale «abbiamo fatto questo...» e «faremo questo...» che suona come una sorta di ebrezza della debolezza. Ma ha qualcosa di dignitoso però. Non si avverte nessuna brama di attaccamento alla poltrona nel discorso, che vorrebbe sembrare ultimativo o penultimativo o terzultimativo e invece è crepuscolare “salvo intese”, dell’avvocato nominato premier un anno fa. Il quale si esercita in un inedito: dare perentoriamente un termine cronologico alla risposta di Salvini e Di Maio - «O lavoriamo in concordia o mi dimetto» - ma senza dire qual è questo termine e senza tracciare la dead line. «Cinque giorni, sei, sette? Non è questione di giorni...». 

<HS9>Si avverte in lui lo sforzo di non uscire troppo male da questa esperienza. In cui il Contratto che legittimava la presenza di Conte in politica s’è sfarinato come metodo di governo. Dunque uscire di scena a testa alta, in modo da potersi giocare altre chance. Non però di tipo politico - la Lista Conte? Suvvia... - ma accademico o notabilare. Di fatto, un’aria di smobilitazione aleggia sull’inquilino di Palazzo Chigi. Gli scatoloni ancora non sono stati fatti, in attesa di sapere l’effetto che fa quest’ultimo appello a ritrovare la concordia e la concretezza che servono. Ma anche questo suo pubblico invito tradisce il si salvi chi può e io cerco di salvarmi dicendo a tutti come stanno le cose e se sono andate così non è colpa mia. L’avvocato del popolo che diventa avvocato di se stesso è la metamorfosi che si è voluta rappresentare. E nella bilancia tra impotenza e determinazione, quella sembrava poggiata sul palchetto dell’oratore, la padella numero uno ha dato l’impressione di essere di gran lunga più pesante di quell’altra. 

<HS9>L’altro elemento della performance presidenziale - all’insegna del rovesciamento del motto andreottiano in un «meglio tirare le cuoia che tirare a campare» - è l’ostentazione di una diversità quasi antropologica rispetto ai suoi vice, intenti e inghiottiti nella politica politicante del litigio continuo. Mentre lui guarda al «Paese» e «al Paese» (espressione ripetuta varie volte) si sente di dover rispondere e di dover spiegare. Sennò, per dire quello che ha detto sarebbe bastato un vertice di governo, quello che Di Maio chiede e quasi implora cinque o sei volte al giorno. 
<HS9>Lo scherzo del destino è che il premier pronuncia il suo discorso nella stessa sala - la Sala dei galeoni o delle galere - in cui Enrico Letta tenne la sua ultima conferenza stampa in cui annunciò ciò che avrebbe fatto nei seguenti 100 giorni (che non ci sarebbero stati). Ed è lo stesso spazio in cui il premier uscente e quello entrante si passano - secondo il rito istituzionale - il campanellino, il simbolo del cambio dell’esecutivo. Dunque c’è Salvini dietro alla porta, pronto ad entrare in sala e prendersi il posto di Conte? 

<HS9>Non siamo ancora a questo, anche perché la debolezza del premier è comprensiva di un estremo tentativo di minare il percorso di Salvini, insistendo sul rischio grande della procedura d’infrazione, sul necessario impegno a non sforare i conti, per non dire dei continui riferimenti a Mattarella considerato come il vero bastione di una virtuosa fisiologia democratica. 
In realtà il Vietnam di Conte è qui. Ma lui oggi, a mezzogiorno, parte per il Vietnam vero, ormai più pacificato di questo. 
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