di Mario Ajello
Martedì 25 Giugno 2019, 00:13 - Ultimo agg. 02:13
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Molto bene. Ma adesso stiamo attenti a spendere nella maniera migliore, per l’intero sistema-paese, questa vittoria italiana in vista delle Olimpiadi 2026. Il successo della candidatura non premia soltanto il Lombardo-Veneto ma, a prescindere dai luoghi prescelti, Milano e Cortina, questa è la vittoria di un metodo che riguarda l’Italia nel suo insieme. 

E non unicamente quelle parti più floride e più ricche. È tutto il Paese che si è voluto mettere alla prova e ha ricevuto un segnale importante di considerazione e di fiducia. Che smentisce anzitutto le cassandre dell’anti-patriottismo militante, secondo cui l’Italia sarebbe affetta da una tara genetico-politica che inibisce e annulla le sue possibilità di giocare da protagonista nelle grandi partite internazionali. Quando l’Italia fa l’Italia, con gioco di squadra, competenza tecnica, capacità di visione e fiducia in se stessa, trova una forza che altri non hanno. 
Perciò va spesa intelligentemente questa vittoria. Senza commettere l’errore di attribuirla a un Nord virtuoso e fattivo rispetto al resto della Penisola che arranca. Vince l’Italia che, ad ogni latitudine, vuole andare avanti. S’impone l’approccio pragmatico alle infrastrutture. E questa è l’occasione per riflettere su quanto la cultura del sì - sì, noi ci siamo; sì, noi ci crediamo; sì, le cose preparate bene e perseguite con determinazione riescono; sì, guardare oltre è un atto di coraggio che non deve restare episodico ma diventare normale - può prevalere e imporsi sulla retropia ideologica. Sul no paralizzante. Sulla chiusura impaurita e superstiziosa ad ogni sfida e ad ogni atto innovativo. 

E c’è Nord e Nord, quello propositivo e quello interdittivo. Perché ora, con l’aiuto di tutti, hanno vinto Milano e Cortina, ma prima ha perso Torino con il suo niet grillino e da “decrescita felice” ai Giochi invernali. Tre anni fa anche Roma venne sfilata a forza dalla candidatura olimpica. Il sindaco di Milano, Sala, si avventura in uno strampalato e irricevibile paragone: «Roma ha sbagliato a ritirarsi. Io la amo, ma Milano alla fine è più solida». Naturalmente perché aiutata in questa vicenda, come in tante altre, proprio dalla forza della Capitale. Cioè del Paese. 

Adesso non serve fare la retorica della vittoria. Occorre invece sottolineare come la decisione in favore dell’Italia sia stata presa al netto di ogni valutazione o pregiudizio politico e unicamente sulla base degli indicatori tecnici e quelli del nostro progetto sono stati ritenuti migliori di quelli degli altri. Non ha pesato insomma il clima di incertezza politico-economica del Paese ma solo i criteri pratici di opportunità, come è giusto che sia. E la risposta dell’Italia dovrà essere nei fatti, nell’efficienza della macchina organizzatrice dei Giochi, nella totale correttezza della gestione, nell’assoluto rigore nel far tornare i conti. E nella capacità di raggiungere quegli obiettivi previsti per esempio nell’analisi dell’impatto economico-finanziario delle Olimpiadi 2026, commissionato dal governo all’Università La Sapienza di Roma. 

Intanto gli 82 membri del Comitato olimpico internazionale hanno premiato la proposta italiana. In cui è stata messa a frutto - con una eccezionalità che deve diventare normalità in tutte le partite che riguardano il nostro Paese - la sinergia tra le istruzioni di ogni livello: la presidenza della Repubblica, il governo, le regioni, i comuni, le autorità sportive. Un quintetto affiatato, per una volta e ogni volta dev’essere così. Perché la nazione, come ci hanno insegnato il Risorgimento e poi grandi storici come Gioacchino Volpe nell’ “Italia in cammino”, non può restare un’idea, deve incarnarsi in una comunità operante e in una volontà comune. 
Proprio per questo sarebbe uno sbaglio imperdonabile piegare questo successo di tutti a interessi regionalistici, usarlo come strumento propagandistico del Settentrione e venderlo, cioè svalutarlo, addirittura come antipasto dell’autonomia da Spacca Italia su cui punta certo nordismo di ritorno. Che invece di coltivare umori e progetti antistorici, dovrebbe ricordarsi di quanto diceva un vero conoscitore della vicenda nazionale, Gaetano Salvemini: «L’Italia senza il Sud diventa soltanto un Belgio più grande». 
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