Al Paese non servono
tornaconti ma soluzioni

di Mario Ajello
Lunedì 12 Agosto 2019, 08:34
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Dilazionare, sopire, troncare. C'è un progetto preciso che muove quella che aspira ad essere la nuova maggioranza del no alle urne subito. E che comprenderebbe, anche in maniera sorprendente ma in politica vige il mai dire mai, Renzi e i 5 stelle, Franceschini e Grillo, settori forzisti e moderati, Leu e Più Europa. E ognuno, com'è comprensibile, ha la propria eredità o rendita di posizione da difendere. 
Perché Renzi dovrebbe rinunciare al potere che gli deriva dall'essere il riferimento primo e ultimo di gran parte del corpo parlamentare dei dem che deve a lui l'ingresso in Parlamento e che a lui porta fedeltà nella ridotta dell'ultima battaglia? E conviene ai 5 stelle andare dritti e senza obiezioni, gridando morituri te salutant, alla mattanza elettorale che finirebbe - secondo i sondaggi - per decimare la loro rappresentanza di deputati e senatori, che ora sono in tutto 323 e probabilmente se ne salveranno non più della metà? 
Ognuno ha o crede di avere, nella strana maggioranza possibile o supposta, il proprio ritorno politico dal voto a scoppio ritardato. Ma bisogna vedere se una somma di interessi di singoli gruppi finora ferocemente avversari costituisca davvero un progetto credibile per l'Itala, o più probabilmente non rappresenti soltanto l'unione dei reciproci tatticismi con lo scopo di evitare le urne per un po', allontanando l'amaro calice. Diverso sarebbe, se si puntasse a un governo veramente di legislatura, voglioso e capace di un'azione di lunga durata e non di sguardo corto. Ha rilanciato questo tipo di ipotesi più sostanziosa ieri sera Zingaretti, ma c'è da chiedersi: esistono le condizioni politiche per praticarla davvero oppure si tratta di una mossa per stanare renziani e 5 stelle e smascherarne le intenzioni politiciste? 
Di sicuro, scavallare il voto in autunno potrebbe servire per rassicurare i mercati, per tenere a bada lo spread, per sterilizzare magari l'aumento dell'Iva e per gestire la legge di bilancio nei tempi adeguati e richiesti dal contesto europeo e dalla tranquillità dei cittadini. In questo, le ragioni del partitone del dilazionare-troncare-sopire sono tutt'altro che immotivate. D'altra parte però c'è il rischio che questa operazione, che vuole essere di tipo interdittivo e autoconservativo, non abbia quel respiro più ampio e quella visione di legislatura che servirebbe alla politica e al Paese in un momento così delicato sul piano interno e internazionale. C'è il pericolo, insomma, che spostare più in là l'appuntamento elettorale inevitabile possa essere più un espediente che una soluzione. E oltretutto una nuova maggioranza, al suo interno molto eterogenea, per gestire un'operazione politica davvero ambiziosa e non puramente tattica avrebbe bisogno di un Pd - che rappresenterebbe l'altro perno di questa iniziativa insieme ai 5 stelle - unito e non spaccato com'è.
L'altro aspetto problematico, e di particolare importanza per quel che attiene il rapporto tra politica e società, tra Palazzo e Paese reale, è che la nuova eventuale maggioranza parlamentare sarebbe tale nelle Camere, e però - stando ai sondaggi, all'esito delle ultime elezioni Europee e ai recenti test del voto nelle varie regioni - non nel gradimento attuale degli italiani. Insomma si rischia di cristallizzare in Parlamento equilibri e peso già cambiati nel Paese. 
E ancora: votare non in autunno, ma sei o otto mesi dopo e non di più, ha senz'altro il nobile scopo di dare respiro finanziario al Paese, e tuttavia il rinvio è un rinvio è un rinvio - parafrasando la rosa di Gertrude Stein - e si tratterebbe di prolungare un'agonia, quella dell'Italia incerta e senza bussola, che necessita invece di una cura immediata. Prendere tempo - sei mesi o quello che è - potrebbe significare perdere tempo. Il che non è nell'interesse della nazione. 
Naturalmente il presidente Mattarella, nella sua correttezza istituzionale e nella sua neutralità patriottica, non prenderà posizione su questo progetto delle urne poi. Aspettando di vedere, nel caso, se esistono i numeri parlamentari per attuarlo. Ed è questo anche l'atteggiamento di chi, nel Paese, non ha preclusioni di sorta e si fa la domanda decisiva: sei o otto mesi di rinvio del voto faranno scemare il consenso di Salvini? L'aspettativa del partitone trasversale è questa. Ma non è detto che il tempo eventualmente impiegato per fare il taglio dei parlamentari, una nuova legge elettorale e la manovra finanziaria riesca a fiaccare e a non ingigantire (non mi danno le elezioni!) le chance del leader leghista. Un vero rompicapo, ecco: per curare una potenziale ferita finanziaria al Paese, che potrebbe verificarsi in autunno nel bailamme dello scontro elettorale paragonato (ma andiamoci piano) alla guerra di religione del 1948, c'è il pericolo di aprire una ferita democratica e di dare un'arma propagandistica in più a Salvini. Il quale nella sua scaltrezza saprà bene come utilizzarla - tra vittimismo e richiamo ai diritti del popolo calpestati e posticipati con manovre di Palazzo - al momento del voto che comunque ci sarà. 
L'estrema complicazione del quadro e l'incertezza che si è venuta a creare, riempita da giochi di tutti i tipi, dipende proprio in buona parte dal leader leghista - così a ragione potrebbero obiettargli i suoi avversari sulla strada del voto - che ha aperto la crisi senza prima sminare il campo, senza essersi assicurato cioè un percorso lineare verso le urne, senza avere la certezza di ottenerle. Non calcolando gli eventuali pericoli e favorendo di fatto ogni tipo di azione alternativa. Sembra aver gettato il cuore oltre l'ostacolo il cosiddetto Capitano. Esponendolo alle frecce che gli stanno arrivando. Sommando una sua intrinseca fragilità a quella evidente dello strano partitone con dentro tutti, o quasi, che prova a dare tempo al tempo ma non è detto che convenga. 
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