Le élite culturali
avamposti nel deserto

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 13 Ottobre 2019, 09:03
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In quale altra città i lavoratori di un museo si danno da fare per liberare la strada di accesso da immondizia e rifiuti di ogni genere, piazzano delle fioriere, e meno di un mese dopo, senza che evidentemente in tutto questo tempo gli spazzini abbiano mai messo piede in quei luoghi, l’immondizia sta di nuovo tutta lì e le fioriere, per colmo di derisione, sono scomparse? Accade al Madre, via Settembrini, Napoli. Accade sul terreno più sensibile del rinnovamento dell’immagine urbana di questi ultimi anni, l’arte. Vale la pena chiedersi allora cosa racconti questa piccola storia, giustamente enfatizzata dal Corriere del Mezzogiorno, e quali indicazioni fornisca sullo stato attuale della città. 

Se il rapporto tra Napoli e la storia dell’arte è fuori discussione, tuttavia non si può non osservare come negli ultimi trent’anni si sia prodotta, proprio su questo terreno, una novità rilevante. La direzione delle sue massime istituzioni artistiche e culturale, del teatro San Carlo innanzitutto, e dei musei, a cominciare da quello di Capodimonte, è diventata un momento decisivo della composizione del più ampio quadro dei rapporti di potere all’interno del sistema di governo urbano. E tra questo e il governo nazionale. Spesso, il pomo della discordia è stato Caravaggio. Attorno ad esso si sono accese ambizioni, polemiche, sono stati pronunciati veti. Caravaggio è diventato così un’eredità contesa e l’occasione per numerose incursioni che hanno attraversato i territori indifesi delle élite intellettuali e sociali della città, seminando tra di esse molto scompiglio. Capodimonte contro il Madre, il Pio Monte della Misericordia contro Capodimonte, il sindaco contro il Mibac, gli storici dell’arte gli uni contro gli altri, e così via. 

Si è così prodotta una politicizzazione della cultura in assenza di qualunque direzione politico intellettuale. Oggi se ne vedono affiorare i frutti avvelenati. Non è stata un’operazione da poco. La politicizzazione della cultura a Napoli è stata una vera e propria annessione che, se nei momenti d’oro, ai tempi di Bassolino, ha significato un elevato grado di integrazione delle élite cittadine (la famosa pax bassoliniana, di cui scrisse in un mirabile articolo Marco De Marco anni fa), oggi identifica piuttosto il perimetro di tutte le oscillazioni, delle incertezze e della generale instabilità che attraversano ciò che resta della cosiddetta classe dirigente partenopea. La compenetrazione, o comunque la reciproca sensibilità, tra governo della città e governo delle istituzioni culturali non è, com’è ovvio, un fenomeno napoletano. A Napoli più che altrove essa ha assunto però un tratto paradigmatico. Sia perché Napoli è stata, all’inizio degli anni Novanta, sullo sfondo del crollo delle strutture politiche della Repubblica, e prima di Berlusconi, il terreno di sperimentazione delle nuova politica (nella forma di un potere locale che dalla periferia spingeva per arrivare al centro e che, fatalmente, premeva per trasformare la cultura in fattore di identità e di legittimazione); sia perché, se dappertutto in questi anni la cultura è poi diventata, essenzialmente, un elemento di marketing urbano, a Napoli, un po’ per le condizioni della città, un po’ per i tratti intellettuali delle sue classi dirigenti (ritualmente storicistiche), essa si è caricata al tempo stesso di un’esigenza molto sentita di tipo pedagogico civile. 

Tanto per intenderci, mentre la Scala di Milano è essenzialmente un trastullo per orde di giapponesi e russi che comprano centinaia di biglietti all’interno di un cospicuo pacchetto turistico; a Napoli, il San Carlo è sempre il faro di un riscatto. A Milano, alla prima del teatro lirico, sfila il bel mondo; a Napoli, nella stessa occasione, è sempre doveroso rendere omaggio alla bellezza della città. Alla sua parte migliore, come si dice sempre in questi casi. È abbastanza singolare questa pervasività della retorica civile se si pensa che qui le massime istituzioni culturali sono oggi affidate alla direzione di valentissime figure che tuttavia non sono napoletane. Poco male, non essendoci evidentemente nessun legame tra origine geografica e competenza professionale. E tuttavia, qualche considerazione in proposito è possibile farla. In che rapporto stanno, infatti, tutti questi luoghi con il resto della città? Perché l’impressione che ognuno vada un po’ per la sua strada senza un quadro comune di riferimento è legittima. Così come viene da chiedersi se la sistematica trasformazione dell’istituzione museale in un evento e la conseguente valutazione di una gestione in termini di incremento del flusso turistico siano sempre un metro adeguato.

Enzo D’Errico sul Corriere del Mezzogiorno ha, dal mio punto di vista, giustamente stigmatizzato qualche giorno fa l’intervista rilasciata al Mattino (senza peraltro nulla togliere alla bravura dell’intervistatore) dal direttore musicale del San Carlo, Juraj Valcuha, che nel momento stesso in cui veniva ufficializzata la nomina del nuovo sovrintendente, Stéphane Lissner, ha voluto, come dire, definire la disposizione delle forze sul campo della gestione futura del teatro lirico, ipotecando di fatto la libertà di scelta della nuova direzione. Nello stesso giorno, sempre il Corriere del Mezzogiorno, dava opportunamente tutta l’enfasi che meritava alla notizia da cui siamo partiti, la vanificazione appunto del tentativo dei dipendenti del Madre di restituire decoro e agibilità alla strada su cui affaccia il museo. 

Che dire? A dispetto di tutta la retorica sul riscatto della città, i suoi grandi musei e i suoi prestigiosissimi teatri stanno a Napoli non tanto come delle istituzioni espresse da tutto il tessuto della sua vita intellettuale e civile ma come degli avamposti di una forza di occupazione straniera. Rispetto ad esse, la città non riesce a garantire, attraverso l’amministrazione, una tenuta delle condizioni minime di esercizio. L’inciviltà di quelli che trasformano le strade in una discarica è infatti quanto meno pari all’evidente latitanza del servizio di rimozione dei rifiuti e, sia detto per inciso, di qualsiasi attendibile apparato repressivo. Ma soprattutto è altrettanto evidente come all’ inefficienza amministrativa corrisponda una totale incapacità di direzione politico intellettuale. Il fatto che, come dicevo sopra, ognuno vada sostanzialmente per la sua strada, dice tutta la gravità del punto a cui è giunta la disgregazione del sistema cittadino. Il vuoto politico amministrativo genera fatalmente l’autonomizzazione delle istituzioni culturali.

Da sempre, sia De Luca che de Magistris, estranei per storia e provenienza sociale, per assenza di linguaggio verrebbe quasi da dire, alla tradizione culturale delle élite urbane, hanno avuto scarsi legami con la città. Insieme alla dimestichezza e alla consuetudine sociale è mancato loro il gusto e forse la capacità di governare dando forma unitaria al sistema culturale della città. La politica dovrebbe lavorare per tenere insieme i suoi pezzi e invece l’Università, i teatri e i musei, vagano nell’assenza di un qualunque principio di direzione coerente. L’egemonia culturale non gode certo di grande fortuna di questi tempi ma la pretesa che un sistema complesso come una città di più di un milione di abitanti possa essere governato senza un’idea chiara e precisa della sua identità pure rappresenta uno dei fattori del pantano attuale.
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