Delitto Materazzo: «Non è stato Luca a uccidere suo fratello, è vittima di un complotto»

Delitto Materazzo: «Non è stato Luca a uccidere suo fratello, è vittima di un complotto»
di Leandro Del Gaudio
Lunedì 14 Ottobre 2019, 23:00 - Ultimo agg. 16 Ottobre, 08:32
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Non è stato lui, ma è finito in una sorta di trappola ordita per costruire attorno alla sua vicenda umana il profilo del condannato perfetto. Non è stato lui, Luca Materazzo non ha ucciso il fratello Vittorio. Anzi. La mano assassina che ha colpito quaranta volte il corpo dell’ingegnere ucciso a 51 anni in viale Maria Cristina di Savoia era animata da un obiettivo in particolare: attirare l’attenzione e costringere tutti, a partire dagli investigatori, a chiudere «il caso dopo un’ora», addossando sul soggetto più debole, sospetti e responsabilità di quel brutale assassinio.
 
Sono le conclusioni delle indagini difensive dei penalisti Luca Bancale, Fabio Carbonelli e Alfonso Furgiuele, che hanno depositato in questi giorni i loro motivi di appello. Chiedono due cose, i legali di Luca Materazzo: l’assoluzione nel merito, per non aver commesso il fatto; e, in subordine, una perizia psichiatrica, perché solo una persona poco lucida potrebbe aver commesso un’azione del genere, sperando di farla franca. Settanta pagine, per ribaltare l’ergastolo comminato mesi fa dalla prima assise, per riscrivere la storia di un delitto brutale, consumato un lunedì sera - era il 28 novembre del 2016 - intorno alle 19, nella parte meno rumorosa di Chiaia. 

Non usano esplicitamente la parola complotto, ma fanno capire che quella sera tutto è stato fatto come per addossare su Luca la colpa di quella tragedia: «Sorge spontaneo un ragionevole sospetto e cioè che la scelta di quel luogo (uccidere Vittorio Materazzo sotto casa e non altrove) sia stata preordinata dal reale autore dell’aggressione per far convergere immediatamente le indagini su colui che di lì a breve - come si vedrà - si sarebbe rivelato il più facile e probabile autore del crimine: Luca Materazzo». Ma su cosa poggiano questa conclusione, i legali del 37enne? Troppe contraddizioni - a leggere gli atti - rispetto alla sentenza scritta dal giudice Provitera la scorsa estate: perché uccidere tuo fratello sotto casa? Perché indossare il casco personale e non un casco usato, magari acquistato in un mercato lontano, zeppo di tracce biologiche altrui? Perché usare il casco che indossi ogni giorno, quello che le fasce segnaletiche di sempre? Poi dubbi anche sull’arma usata. Non un coltello da sub con la lama lunga, ma un coltello con la lama piccola, fatto apposta per protrarre l’azione criminale, al punto tale da rendere necessarie ben quaranta coltellate. E ancora. Perché l’assassino non ha usato uno scooter? Tutti ricordano che, dopo essere stato visto dal professionista Paolo Licenziati (cugino di vittima e imputato), l’assassino gli volta le spalle, scende le scalette di corso Emanuele, sapendo di essere seguito da Licenziati. Passo svelto, ma senza correre, l’uno a tre metri di distanza dall’altro, fino a quando l’assassino imbocca vico Santa Maria della Neve, dove si cambia d’abito. Possibile? Come mai un assassino, in un delitto premeditato e covato negli anni, non pensa a costruirsi un alibi? 

E ancora domande ad effetto: non era più semplice usare uno scooter e lasciare la zona, invece di fare una passerella nel luogo in cui vivi, per giunta alle sette di sera? «Una condotta stravagante e illogica», scrivono oggi i legali. Che insistono su una sorta di mister x: «L’unica spiegazione ragionevole è che il reale autore del fatto abbia precipuamente voluto protrarre i tempi dell’azione, onde consentire l’arrivo di testimoni oculari che potessero “scambiarlo” per l’odierno imputato; cosa che si è puntualmente verificata! Il tempo trascorso dall’inizio dell’aggressione, infatti, ha consentito che più persone sopraggiungessero, assistendo alla parte finale di essa e fornendo (soprattutto Paolo Licenziati) il proprio significativo contributo al prosieguo delle indagini».

Ma nella ricostruzione del delitto di Chiaia ci sono anche altri spunti su cui batte la difesa di Luca Materazzo. Mai - spiegano i legali - l’ingegnere ucciso ha urlato il nome del fratello, nonostante abbia ingaggiato una strenua difesa dopo le prime coltellate alla schiena. E non è tutto. Il giorno dopo - come ormai è noto - Luca si è recato in questura a denunciare una possibile incursione in casa di estranei, dal momento che le chiavi erano alla portata di tutti: «Ma non parla mai di furto di caschi, limitandosi a rispondere alle domande degli agenti». E la prova biologica? Le poche tracce di Dna - scrivono i difensori - sono compatibili con l’uso di casco e indumenti di Luca, indossati quella sera dall’assassino. Ora la parola ai giudici di secondo grado, mentre attendono la conclusione del caso Elena Grande, vedova di Vittorio Materazzo (difesa dai penalisti Enrico e Arturo Frojo), due delle tre sorelle parte civile (difese dagli avvocati Simona Lai e Gennaro Pecoraro).
 

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