La prima volta di Marone:
«Una vita da avvocato
e la penna da scrittore»

La prima volta di Marone: «Una vita da avvocato e la penna da scrittore»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 26 Ottobre 2019, 20:00 - Ultimo agg. 3 Novembre, 09:42
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La prima volta che Lorenzo Marone pensò che avrebbe fatto lo scrittore coincise con la consapevolezza che non avrebbe mai voluto fare l'avvocato. La passione per la lettura c'era già, sin da bambino: divorava in modo onnivoro saggi e romanzi, mentre i suoi compagni di scuola si sfidavano sui campi di calcetto. Poi, la voglia di provarci e i primi racconti fantastici buttati giù a beneficio di amici e parenti, quando - e se - decideva di farli leggere a qualcuno.

Come mai proprio l'avvocato?
«Avrei dovuto lavorare nello studio di mio padre, cosa che peraltro ho fatto per una decina d'anni, prima di decidere di andare via. Scelsi di studiare Legge anche perché non avevo le idee chiare e la facoltà di Giurisprudenza mi sembrava quella utile ad aprirmi più strade, ma il diritto non mi è mai piaciuto».

Però, l'avvocato lo ha fatto per dieci anni.
«Lavorando male e controvoglia: è stato un calvario».

Cosa la convinse a cambiare vita?
«Come spesso accade, quando non decidiamo è la vita a farlo per noi. Fu un grande dolore a mettermi con le spalle al muro: in quell'occasione, con lucida follia, capii che dovevo dare una sterzata e fare finalmente ciò che volevo. Così, dissi a mio padre che mollavo tutto e andavo via. Che liberazione!».

Quindi?
«Tornai a scrivere. Negli anni avevo pubblicato un paio di libri con editori minori, più per sfizio che per altro. Sempre a tempo perso, avevo partecipato a una serie di competizioni per racconti inediti - che puntualmente vincevo. Ma quella volta avevo deciso di fare sul serio, dovevo mettermi alla prova e capire se il talento c'era o no. Così, scrissi una storia, che intitolai La farfalla».

E a quale conclusione arrivò?
«Per la verità, ci arrivò mia moglie. Le chiesi di leggere il libro, sapevo che mi avrebbe giudicato in maniera sincera. La guardavo, e la vedevo appassionarsi alla storia con attenzione e curiosità. Quel modo di leggere mi fece capire, per la prima volta, che la scrittura sarebbe diventata il mio mestiere».

Quindi, il talento c'era. Un punto di partenza fondamentale.
«Non ho mai creduto troppo nelle scuole di scrittura. Un po' si può imparare leggendo, quella è certamente una grande bottega, ma come raccontare il tuo sentire attraverso una storia di fantasia, non si impara da nessuna parte».

O ce l'hai o non ce l'hai, insomma.
«Io penso che ognuno di noi abbia il proprio talento, il problema è trovarlo. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai accontentato di essere insoddisfatto, anche quando facevo l'avvocato ero sempre alla ricerca di me».

La tentazione di essere felici, per dirla con il titolo del suo libro di maggiore successo.
«Ho impiegato sei mesi per farlo leggere a qualcuno. Era il 2013, il mondo dell'editoria mi era sconosciuto, ero un grande lettore e basta. Per fortuna, il mio manoscritto finì nelle mani di Silvia Meucci, titolare di una agenzia letteraria: mi chiamò e volle incontrarmi».

Il primo passo verso il successo.
«Dopo venti giorni, il libro lo aveva letto Stefano Mauri, a capo di GeMS - terzo gruppo editoriale italiano, dietro Mondadori e Rizzoli. Si innamorò di Cesare».

Il protagonista del romanzo.
«Mi hanno detto che l'ho descritto in maniera così credibile, che risulta difficile pensare che esista solo sulla carta».

Sarà per questo che Mauri si è appassionato.
«Può darsi».

Chi è Cesare?
«Un uomo di quasi ottanta anni, che ripercorre le scelte fatte in passato, le mancanze, la continua insoddisfazione per una vita nella quale sembra finito per errore e non per scelta. Anzi, forse proprio per mancanza di scelte. Sì, devo dire che Cesare è un personaggio coinvolgente».

Così, il libro andò in stampa.
«Quello fu un momento di svolta. L'interesse del patron di GeMS per il mio romanzo mi diede grande sicurezza e una buona spinta iniziale».

Abilità ma anche un pizzico di fortuna. O no?
«Quello dell'editoria è un mondo in cui se hai talento prima o poi qualcuno ti nota, ma è difficile. Solo dopo qualche tempo ho capito quanto fosse necessario avere un agente, è inutile mandare roba alle case editrici in maniera casuale. Sulle scrivanie degli editor arriva veramente di tutto».

Bisogna ringraziare Cesare, in ogni caso. 
«E i grandi autori e editori che mi ha dato la possibilità di conoscere».

Uno su tutti?
«Daniel Pennac. Ci incontrammo al salone del libro di Torino. Parlammo a lungo, soprattutto di Napoli - una città che amava molto, mi disse che si avvicinava al mondo che descriveva. E poi Inge Feltrinelli, indimenticabile».

Dove la incontrò?
«A Milano. C'era una riunione con i venditori Feltrinelli e noi autori venimmo chiamati a presentare i nostri libri. Il mio era Magari domani resto. Ricordo ancora la sala enorme e lei seduta in prima fila».

Una grande emozione.
«E tanta agitazione. Già sono caratterialmente timido, figurarsi poi davanti a un pubblico del genere. Appena si chiuse la kermesse, andai a salutarla. Mi fece i complimenti, non riuscivo a crederci - in quel momento sentii che ero diventato uno scrittore». 
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