Da Volterra a Napoli, Punzo e Ferri si interrogano sul senso dell'educazione dentro le mura di un carcere

Da Volterra a Napoli, Punzo e Ferri si interrogano sul senso dell'educazione dentro le mura di un carcere
di Donatella Trotta
Domenica 27 Ottobre 2019, 18:10
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Insegnare in un mondo a parte. Un microcosmo detentivo, dei “derelitti e delle pene”. Dove il monito dell’articolo 27 della Costituzione italiana – soprattutto nel passaggio che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» - diventa una sfida non soltanto educativa dall’esito non scontato. E dalla pratica tutt’altro che agevole: come sa chiunque abbia varcato almeno una volta, anche solo da volontario, i portoni delle Case Circondariali, o istituti penitenziari, dove l’accessibilità alla cultura, ai libri e dunque alla bellezza possono fare davvero la differenza.

Ne sa qualcosa Armando Punzo, che stamane al museo Madre di Napoli, introdotto da Laura Valente, ha presentato Un’idea più grande di me, il libro di conversazioni con Rossella Menna pubblicato da Luca Sossella editore che racconta - tra emozioni e analisi di un resoconto autobiografico insieme soggettivo e oggettivo - i trent’anni di attività teatrale di Punzo all’interno del carcere di Volterra, il suo lavoro maieutico con gli attori detenuti, interrogandosi così sul senso profondo e sulle implicazioni personali di una scelta radicale datata 1988: quando Armando Punzo - regista, drammaturgo e attore – varcò appunto il cancello della Casa Circondariale di Volterra dove ha fondato la Compagnia della Fortezza, prima pionieristica e più longeva esperienza di teatro in un istituto penitenziario, che ha trasformato un luogo di pena in un centro di ricerca artistica sperimentale e all’avanguardia.

Dalla fisicità del teatro alla parola (scritta e letta, oltre che narrata, agita, vissuta) il passo è breve. E a compierlo, in un percorso incessante di lavoro educativo e prossimità relazionale ai detenuti, è ora anche Antonella Ferri, docente di mestiere, che quasi per caso si è trovata a cimentarsi, nel nostro territorio napoletano, con il dettato costituzionale da cui siamo partiti: sperimentando percorsi di inclusione con metodologie educative trasformanti. Lo racconta lei stessa in un libro, Diario di bordo. Un anno di scuola in carcere nei pensieri di una prof e degli studenti della classe accanto, edito da Tullio Pironti, che si presenta domani (lunedì 28 ottobre) alle ore 18 nella libreria Ubik al centro storico (via Benedetto Croce 28), dove l’autrice dialogherà con il filosofo Giuseppe Ferraro, a sua volta collaudato educatore nelle carceri e in altri luoghi estremi secondo la poetica della sua Associazione, Filosofia fuori le mura, che sorregge anche molti suoi libri sull’esperienza vissuta a contatto con detenuti più o meno giovani.

Il “diario di bordo” di Antonella Ferri - un po’ come avvenne all’opera corale con Andrea Valente e altri La pecora nera e altri sogni (Magazzini Salani), nata da un anno di lavoro progettuale nell’Istituto Penale minorile di Nisida – è un lavoro collettivo: gli autori del librino, infatti, scritto da «tante penne e matite», hanno nomi diversi ma sono accomunati da un unico impegno conoscitivo. Da un lato, c'è una “prof” animata dalla passione per un lavoro al quale è approdata quasi per caso; dall’altro lato, ci sono detenuti diventati studenti, in virtù o a causa degli errori commessi; e da una parte, dunque, c’è una persona che non smette di interrogarsi (proprio come Armando Punzo e tanti altri coinvolti, in Italia e all’estero, su quei fronti) sul senso della propria azione quotidiana quale strumento rieducativo, dall’altra parte uomini e ragazzi che attraverso pensieri - talvolta ironici, altre volte seriosi e malinconici - si rivolgono a qualcuno che sentono, e riconoscono, come punto di riferimento.

Nasce così l'idea del libro di Antonella Ferri: una strategia didattica che diventa, attraverso l’espediente narrativo del diario di bordo, gioco: un approccio ludico alla navigazione nella vita quotidiana, con il serio intento di mantener vivo un rapporto educativo, ma soprattutto umano, compromesso dall’imprevisto avvicendarsi dei docenti. Il diario diventa allora un mezzo lieve attraverso il quale narrare a più voci un anno di scuola in carcere, frammenti di vite spezzate in bilico tra momenti di disagio e serenità rubata alla reclusione nelle celle, attraverso pagine che focalizzano e mettono così in luce in modo paritario gli intenti sia di chi insegna, sia di chi impara.

Il "diario di bordo" della Ferri racconta, in altri termini, la volontà di ri-costruzione, le aspettative non sempre ripagate, le attività che spingono alla crescita personale, gli abbandoni e le sconfitte. È la testimonianza della solitudine di scelte sbagliate e quella di un mestiere educativo che si confronta anche con chi ritiene ingenua fatica insistere sulla via della conoscenza, con chi ha imparato troppo presto la ferocia impietosa della strada. E le parole allora diventano specchio, anche dal punto di vista ortografico, di quel mondo a parte troppo spesso ignorato, invisibile, perché rimosso dalla coscienza collettiva: mostrando quanto sia invece importante, per il futuro della coesione sociale e della stessa sicurezza, educare alla tolleranza, al senso civico e alla legalità. Anche dentro le mura di un carcere, dove magari – se si arriva a comprendere quanto la bellezza possa essere salvifica - qualsiasi uomo, per quanto reo, può ritornare libero nella consapevolezza e responsabilità delle proprie azioni.
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