di Paolo Balduzzi
Giovedì 21 Novembre 2019, 23:53 - Ultimo agg. 22 Novembre, 00:05
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Qual è lo stato di salute della politica industriale italiana? Il paziente è grave, in profonda agonia. Speriamo solo non ancora in pericolo di vita. Questa è la risposta suggerita dalle recenti vicende che riguardano, in particolare, l’ex Ilva di Taranto e Alitalia. Siamo ben lontani da quella che dovrebbe essere la prospettiva normale del Paese che è stato quinta potenza industriale nel mondo e che, ancora oggi, resiste nel gruppo delle prime dieci. 

Ma in questo difficile autunno del 2019, ci si aggancia anche a poche buone notizie per continuare a sperare. Si siederanno infatti oggi a Palazzo Chigi i vertici del governo italiano e di ArcelorMittal per tentare di risolvere il pasticcio delle ultime settimane. Obiettivo principale: dare certezza, prospettiva e tranquillità a lavoratori e famiglie coinvolte. Obiettivi secondari, ma forse nemmeno tanto dal punto di vista degli attori coinvolti: evitare una figuraccia al governo e possibili mannaie legali al gruppo franco-indiano.

Se le proposte sul tavolo oggi permetteranno di salvare la situazione - cosa che non avverrà comunque nel giro di qualche giorno - allora sopravvivrà la speranza, innanzitutto, che il sistema Paese, seppure in maniera molto imperfetta e macchinosa, ha saputo reagire.

Secondariamente, che avrà funzionato la collaborazione tra uno Stato nazionale democratico e una grande impresa internazionale. Infine, che la rete del territorio sarà stata in grado di proporsi credibilmente come sostegno (si pensi alla necessità di limitare il più possibile gli esuberi e di riassorbire quelli inevitabili). Certo, troppo presto per cantare vittoria; e troppo comodo dimenticarsi delle responsabilità che hanno portato a una crisi di questo tipo. Ma la soluzione appare comunque più vicina di quella che riguarda un’altra importante azienda italiana, vale a dire Alitalia. Dopo tutto questi anni, dopo gli innumerevoli tentativi, i prestiti ponte, i finanziamenti a fondo perduto, le bad companies e i “capitani coraggiosi”, siamo praticamente all’anno zero. I milioni di euro buttati si accumulano, calcolare quanto l’azienda sia costata a ciascuno di noi è ormai un esercizio che serve solo a innervosirsi ancora di più. Non sembra esistere un progetto, non esiste di certo una prospettiva; galleggia solo la speranza che qualche grande azienda, nazionale o internazionale, provi a rivitalizzare l’impresa.

Manca anche il coraggio di ragionare, con lucidità, se - in assenza di un progetto vero e solido - sia effettivamente il caso di mantenerla ancora in vita. Tanto varrebbe altrimenti lasciare al mercato la risposta; del resto, se l’azienda va male e la gente continua a spostarsi in aereo (magari con le low cost finanziate dalle Regioni) , è evidente che il mercato la sta già sostituendo nei fatti. Cosa succede al nostro Paese? Galleggiamo su una scialuppa e da lì cerchiamo di salvare la nave che affonda, quando invece dovrebbe essere la nave stessa a permetterci di navigare tranquillamente.

Fuori di metafora, ci siamo ridotti a procedere per emergenze e non più per progetti, per salvataggi invece che per rilanci, per assistenza e non per promozione; peggio ancora: ci siamo ridotti a far definire la politica industriale dalla giustizia civile e dal diritto fallimentare e non dalle stanze di Palazzo Chigi o dalle aule del Parlamento. E ad abusare del sistema pensionistico come strumento di gestione delle crisi aziendali: abbiamo messo l’Inps al posto del ministero dello Sviluppo economico. Come è stato possibile? Possibili cause sono da ricercarsi nelle debolezze di fondo della politica italiana e in quelle della politica industriale in particolare. Dal primo punto di vista, l’orizzonte temporale è ormai sempre troppo breve, troppo orientato alla prossima scadenza elettorale, che sia nazionale, regionale o europea, troppo declinato al consenso attuale. A ciò si aggiunge un’ulteriore debolezza, che ha effetti deleteri proprio sulla politica industriale: la forte instabilità del quadro politico. Nemmeno l’ormai concluso ventennio del maggioritario ci ha regolarmente consegnato governi di legislatura; a volte la discontinuità tra governi successivi è stata totale, almeno sulla carta (come in questa legislatura); altre volte è stata quasi nulla (si pensi al passaggio tra Renzi e Gentiloni).

Ma tutto ciò ha colpevolmente prodotto l’assenza di una pianificazione specifica da parte proprio del ministero dello Sviluppo economico; inoltre, ha reso impossibile una più generale riflessione su dove vuole andare questo Paese e su quali gambe strutturare lo sviluppo futuro. Che vocazione vogliamo dare al nostro Paese che galleggia, con grave fardello delle finanze pubbliche e oberato di imposte? Certo la grande industria rimane fondamentale - e quella dell’acciaio in particolare. Bene i passi e i progressi con Mittal, anche se rimane molta amarezza per il tempo perso e per il danno di immagine e reputazione che ha subito tutto il Paese. Ma, pur stando attenti a non ridurlo una Disneyland poco efficiente, quando proveremo a valorizzare in criteri industriali anche il turismo? Abbiamo in Italia il maggior numero di patrimoni Unesco, mari e montagne che tutti ci invidiano, colline che da secoli sono la meta di viaggiatori e intellettuali di tutta Europa da secoli.

La gente in Italia vuole venire, da sempre: eppure con Alitalia non si è riusciti a fare il simbolo di una attrattività che pur l’Italia ha.
Non si è riusciti a farne il volano di una crescita possibile. Si è preferita piuttosto la desertificazione industriale. E lo sa bene la nostra Capitale che con la chiusura o il doloroso declino di Alitalia perderebbe uno dei suoi, una volta grandi, polmoni occupazionali e di sviluppo. Il tempo per rinsavire ormai è agli sgoccioli.
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