Se il Sud sciupa l'esperienza di Matera

di Mauro Calise
Lunedì 9 Dicembre 2019, 10:00
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Dopo un anno di straordinari successi, tra due settimane Matera 2019 chiude i battenti. Ed è destinata a diventare il simbolo della forza e vitalità del Mezzogiorno e, al tempo stesso, della sua debolezza strategica.

Per chi ha creduto in questa sfida, c'è da essere orgogliosi. La capitale europea della cultura ha organizzato centinaia di eventi in tutta la regione, con artisti e protagonisti di rilievo internazionale che hanno attirato flussi turistici impensabili fino a pochi anni fa. Ma non meno importante è stato l'indotto sociale attivato. Oltre ai risvolti occupazionali e infrastrutturali, la popolazione è stata coinvolta in decine di progetti di comunità una pratica di democrazia partecipata che ha mixato creatività e territorio. Alimentando un nuovo spazio identitario. Per un anno e per gli anni necessari alla complessa gestazione del progetto i materani hanno vissuto la cultura come una grande occasione di sviluppo. Sfatando il tabù, che persiste nella cultura meridionalista, che con la cultura non si mangia.

E ora? Qual è la «legacy» di Matera, cosa resta di quest'esperienza? Perché non può diventare il modello per quella svolta meridionalista della politica nazionale che tanti invocano, ma senza mai imbroccare una chiara direzione di marcia? Dopo un anno di straordinari successi, tra due settimane Matera 2019 chiude i battenti. Ed è destinata a diventare il simbolo della forza e vitalità del Mezzogiorno e, al tempo stesso, della sua debolezza strategica.

Per chi ha creduto in questa sfida, c'è da essere orgogliosi. La capitale europea della cultura ha organizzato centinaia di eventi in tutta la regione, con artisti e protagonisti di rilievo internazionale che hanno attirato flussi turistici impensabili fino a pochi anni fa. Ma non meno importante è stato l'indotto sociale attivato. Oltre ai risvolti occupazionali e infrastrutturali, la popolazione è stata coinvolta in decine di progetti di comunità una pratica di democrazia partecipata che ha mixato creatività e territorio. Alimentando un nuovo spazio identitario. Per un anno e per gli anni necessari alla complessa gestazione del progetto i materani hanno vissuto la cultura come una grande occasione di sviluppo. Sfatando il tabù, che persiste nella cultura meridionalista, che con la cultura non si mangia.

E ora? Qual è la «legacy» di Matera, cosa resta di quest'esperienza? Perché non può diventare il modello per quella svolta meridionalista della politica nazionale che tanti invocano, ma senza mai imbroccare una chiara direzione di marcia? Un anno fa, su queste colonne, avevamo sollevato il problema. Proponendo che la formula del successo di Matera venisse replicata su un arco decennale in ogni regione del Sud. Ogni anno, una città campana, pugliese, calabrese, siciliana sarebbe stata per dodici mesi capitale meridionale della cultura. Un titolo che avrebbe avuto innanzitutto un impatto simbolico, fungendo, al tempo stesso, da volano di aggregazione e moltiplicazione della miriade di iniziative che coinvolgono musei, teatri, università. Capovolgendo la frammentazione in un messaggio e in un luogo di comunicazione integrata. Non è questa, del resto, l'esigenza emersa con forza dagli stati generali della cultura convocati, poche settimane fa, da De Luca a Palazzo Reale?

Ma per mettere in rete a sistema questo mosaico di realtà culturali occorre una convinzione politica che, fino ad oggi, è mancata. Una convinzione, e una leadership. Mettere la cultura al primo posto dell'agenda meridionale implica una rottura col passato, e una nuova idea di futuro. Significherebbe porre fine al sogno del meridionalismo classico di replicare, a Sud del Garigliano, il modello industrialista che, al Nord, segna il passo già da più di un ventennio. Prendendo atto di verità elementari che solo i nostri politici riescono ancora ad ignorare. La prima è che i giovani emigrano non solo per mancanza di lavoro, ma ancor più per mancanza di cultura. Perché nelle nostre città non trovano gli stimoli mentali e gli stili comportamentali che fanno sopportare i disagi, stringere i denti perché si apre il cuore. La seconda verità è che, a dispetto di questa emorragia micidiale, il Mezzogiorno resta un territorio di prodigiosa bellezza esistenziale. E con un tasso di contaminazione genetica che lo rende un protagonista ideale dell'ecosistema globale in cui volenti o nolenti siamo immersi.

La verità, infine, più importante è che la politica ha bisogno di messaggi forti, e palpitanti, se vuole provare a riacquistare credibilità, e un ruolo guida. Tutte le iniziative anche di qualità che si affollano al capezzale del Mezzogiorno hanno il comune denominatore di inglobare quanti più buoni propositi è possibile. Cercando di accontentare tutti, e finendo, inevitabilmente, col non soddisfare nessuno. Anche perché, nella ridda di proposte e destinatari, finisce col mancare l'ingrediente indispensabile per ogni policy che voglia passare dall'ideazione all'implementazione: una cabina di regia manageriale all'altezza degli obiettivi. È stato questo l'asset di Matera, il team raccolto intorno a Paolo Verri che ha costruito e seguito con tenacia e professionalità una visione diversa di sviluppo. Un modello che il Mezzogiorno non può restare solo a guardare.
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