Pd e de Magistris, l'intesa
che può fare male alla città

di ​Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 19 Gennaio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 08:02
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Il Partito democratico a Napoli è di fronte ad una scelta, che se oggi può apparire già compiuta non è per questo meno cogente. Il Pd deve infatti decidere se integrare de Magistris in uno schema stabile di alleanze che, per salvare i destini elettorali di un partito da troppo tempo lontano dai posti di comando e con una gran voglia di rivincita finisce per condannare la città ad un destino fatto di marginalità clientelare e cattiva amministrazione. Perché questo e non altro significa la scelta di candidare il giornalista Sandro Ruotolo - un professionista fortemente impegnato nel sociale e da tempo in prima linea soprattutto sul fronte della legalità - alle elezioni suppletive per il Senato previste per il prossimo 23 febbraio.

Detto in altri termini, il Pd deve dire ai suoi potenziali elettori se intende lasciare de Magistris al suo destino o compromettere il destino di Napoli salvando De Magistris nella speranza mal riposta di consolidare la struttura barcollante del proprio consenso. Legandosi a de Magistris per il tramite di Ruotolo il Pd dichiara infatti che i suoi interessi elettorali sono in palese contraddizione con gli interessi della città, che quello che va bene per il Pd (ammesso che vada bene) non va bene per Napoli. 

Non va bene per Napoli, non solo perché dal 2011 è amministrata da un sindaco che ha dato pessima prova di sé, per lo spettacolo desolante che è costretta ad offrire quotidianamente, per l’incuria e l’abbandono in cui versa, perché tracotanza e degrado prosperano in una città dove è evidente e conclamato il vuoto di direzione politico-amministrativa. Non va bene perché in questo modo il Pd dice ai napoletani di perdere ogni speranza, che la politica è affare loro, del ceto politico, e persegue interessi che sono tutti chiusi nel perimetro asfissiante della sua conservazione e riproduzione. 

Con un trucco nemmeno troppo difficile da riconoscere, il Pd tenta di camuffare così uno scambio altrimenti indifendibile: votare a sinistra non per amore delle ragioni della sinistra ma per amore degli interessi di autotutela di una burocrazia di partito che sguazza in una fanghiglia di tatticismi. Si può infatti stare con de Magistris pensando di non dover essere chiamati ad esprimere un giudizio politico sugli anni di de Magistris a Napoli? E se un giudizio che aspiri ad un minimo di onestà intellettuale e di verità non può che essere severo, allora, viene da chiedersi, a che fine stare con de Magistris? Dentro questa palese contraddizione si avvolge un gruppo dirigente che si distingue per sprovvedutezza intellettuale e cinismo politico. Il connubio perfetto della volgarità nella sfera pubblica democratica. Un gruppo dirigente che non è mai riuscito a pronunciare non dico un’analisi della realtà napoletana e meridionale, che sarebbe chiedere troppo, ma ad astenersi almeno dal vuoto formulario di banalità a cui siamo stati abituati in queste settimane. E che non potrà che ricorrere ulteriormente a frasi fatte, alla fumosità delle dichiarazioni ufficiali, per provare a nascondere questa intesa elettoralistica che altro non è che un accordo tra capifazione. Dovendo difendere ciò che difendere non si può, fatalmente il linguaggio si stacca dalla realtà e diventa un modo per nasconderla. Ma in questo modo la politica si stacca a sua volta dalle passioni della comunità e dal sistema dei suoi più vasti interessi per andarsi a confinare dentro il covile di un professionismo politico da straccioni. 

Non andrebbe infatti dimenticato che l’attuale sindaco di Napoli fu eletto per il suo secondo mandato sullo sfondo di un’ampia astensione. La metà del corpo elettorale napoletano, messo di fronte ad una scelta miserevole, decise semplicemente di non andare a votare, di trattenere presso di sé il voto; una sorta di vasto e clamoroso «non in mio nome» pronunciato a voce alta. C’era in quella scelta tutta la debolezza e la disperazione di chi proprio dalla politica viene espropriato del suo diritto di partecipazione. Ora questa espropriazione rischia di ripetersi. Ancora una volta la politica, chiusa dentro i propri interessi autoconservativi, volta le spalle alla città imponendogli con arroganza le proprie decisioni. Lo scollamento e la disaffezione tra istituzioni rappresentative e comunità degli elettori non può così che approfondirsi, rendendo ulteriormente drammatica la crisi di Napoli, che non ha certo bisogno di escamotage, né tanto meno di furbizie elettoralistiche. Napoli è condannata così a sprofondare ancora di più sotto il peso di un lumpenproletariat partitico, parassitario e inoperoso, senza pensieri e senza nessuna ambizione, fatto di mediocri funzionari, di quadri sindacali senza più lavoratori da difendere, di una pletora affamata di aspiranti assessori e consiglieri comunali, fratelli e cognati. 

Quali legami spera il Pd di allacciare per questa via con la città, con le sue istituzioni culturali e civili, con i cittadini comuni in attesa di uscire dal tunnel allucinatorio di questi anni è difficile dirlo. Ma forse è anche inutile. Alla politica continuiamo a chiedere quello che la politica da troppi segni appare ormai incapace di dare: un principio di direzione della società.
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