Sistema vulnerabile/L epidemia scopre i limiti della società globalizzata

Sistema vulnerabile/L’epidemia scopre i limiti della società globalizzata

di Francesco Grillo
Giovedì 13 Febbraio 2020, 00:17
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Ci voleva un nuovo misterioso agente patogeno, manifestatosi in quel Paese che era la “fabbrica del mondo”, per stabilire - in maniera definitiva - che una società super connessa è una società fragile. Se ci sarà un effetto permanente del coronavirus, una volta superata l’emergenza, esso sarà quello di cambiare – per sempre – i caratteri di quel processo storico che abbiamo chiamato globalizzazione.

Degli 82 patogeni scoperti nel mondo a partire dal 1980, solo quello dell’Ebola e, soprattutto, dell’Hiv (Aids) avevano, finora, ucciso più di mille persone. E, tuttavia, nel caso dell’Ebola il fenomeno fu limitato dalla geografia e la paura fu mitigata dalla consapevolezza che il fenomeno si fosse propagato nelle condizioni di assoluta povertà dell’Africa sub-sahariana. Mentre, comunque, l’Aids che, pure, ha stroncato 30 milioni di vite colpendo le città e alcuni dei simboli dell’Occidente, è stato sempre percepito come confinato a specifiche comunità e abitudini sessuali. 

La sensazione che sta, in queste ore, crescendo è che, invece, il coronavirus può colpire chiunque. Nasce in città dal nome sconosciuto fino a qualche giorno fa e che scopriamo essere, letteralmente, al centro del mondo (a Wuhan producono molti dei componenti dell’infrastruttura 5G).


È questa paura sottile che sta compromettendo, definitivamente, la fiducia che, per decenni avevamo nutrito nell’idea di una società senza barriere.
La globalizzazione aumenta la vulnerabilità del sistema attraverso tre canali. Innanzitutto, la velocità con la quale si muovono le persone. Se c’è un dato allarmante del bollettino diffuso dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, è che per la prima volta dall’inizio dell’emergenza più della metà dei nuovi casi di contagio registrati nei Paesi fuori dalla Cina si riferiscono a persone che non sono state in Cina negli ultimi sei mesi: questo dettaglio dice che il virus nato a Wuhan, ha viaggiato – attraverso gli aerei e i treni ad alta velocità – al punto che è pronto a separarsi dal contesto che lo ha incubato. 


In secondo luogo, l’epidemia sta acquistando forza perché colpisce un’economia nella quale lo spostamento di componenti e pezzi di prodotti ha disegnato catene produttive lunghissime e che attraversano, in alcuni casi, decine di Stati prima di diventare un’automobile o un telefono cellulare. Basta che esse si fermino in uno solo dei punti della catena che interi settori produttivi entrino in crisi.

Si riducono, poi, molto velocemente i costi di accesso alla conoscenza e anche questo processo produce effetti collaterali. Navighiamo in oceani di dati ma ciò rende realistici scenari che avevamo visto solo in quei film nei quali Hollywood si misura con l’idea della propria distruzione: non è escluso che ordigni nucleari o batteriologici sporchi possano diventare la prossima frontiera della guerra asimmetrica che contrappone poteri che non si possono permettere scontri frontali.

Ma la vulnerabilità è, soprattutto, psicologica. Una complessità che l’Occidente ha creato e che l’Occidente non riesce più a capire, fa dell’angoscia (270 milioni di individui sono clinicamente depressi con un’incidenza molto più forte negli Stati Uniti e in Europa) la vera malattia oscura di questa modernità strana. Ed il cortocircuito con processi di produzione e distribuzione di notizie che nessuno controlla, sta staccando realtà e percezioni. 
Una globalizzazione che possiamo sostenere sarà, dunque, molto diversa da quella che abbiamo celebrato per trent’anni: riusciremo a renderla umana, solo trasformando le stesse tecnologie che ci rendono vulnerabili, in una leva per risolvere problemi concreti.
Sono proprio i sensori (paradossalmente quelli che saranno i nodi informativi della rete 5G che esce dalle fabbriche di Wuhan) a rendere possibile identificare i possibili contagi negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie senza fermare nessuno. Sono le tecnologie – come la stampante in tre dimensioni - che consentono di smontare lo stesso concetto di catena di montaggio e che stanno già accorciando molto delle catene di produzione diminuendone la fragilità. 
È un utilizzo meno privato, regolato da governi intelligenti, che può rendere le piattaforme attraverso le quali le informazioni viaggiano più sicure e i dati sensibili maggiormente protetti. Diventerà impossibile anche per la più controllata delle dittature nascondere informazioni e irresistibile il diritto della comunità internazionale alla trasparenza. E, tuttavia, per le democrazie la sfida sarà quella opposta ma non meno difficile, di rimettere insieme libertà e responsabilità.
E, tuttavia, la vera sfida è riportare in una società drogata di sicurezze eccessive che tendono a trasformarsi in panico, l’entusiasmo, la curiosità intellettuale. La capacità di gestire il rischio e affrontare i nostri limiti, che ci ha portato fino a qui. Ad uno degli incroci più affascinante e pericoloso della storia.
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