Coronavirus, se papa Francesco prega nella Roma deserta

di Angelo Scelzo
Domenica 15 Marzo 2020, 23:00
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Il Papa pellegrino nel deserto delle strade di Roma. Prima l’omaggio all’icona della Salus populi romani, nella Basilica di Santa Maria Maggiore.

Qui si reca prima e dopo ogni viaggio intorno al mondo. Poi attraversando a piedi via del Corso, la preghiera al crocifisso miracoloso nella chiesa di San Marcello: fu questa l’immagine che, nel 1522, i fedeli portarono di quartiere in quartiere perché avesse termine il flagello della «grande peste» della città. 

Non sono nemmeno più i tempi ordinari della «chiesa in uscita» di Francesco e forse neppure lui immaginava quanto reale potesse diventare, durante il tempo del suo pontificato, quella sua immagine non meno suggestiva della Chiesa come «ospedale da campo». E allora ecco di nuovo in campo, a cavallo di secoli, eppure all’improvviso e con l’urgenza che il dilagare dell’epidemia richiede, la Chiesa dei gesti forti, l’indomita e umile compagna di viaggio di tutte le grandi sofferenze dell’uomo. Si avvertiva che al tempo del coronavirus era maturo anche il tempo di una diversa testimonianza di Chiesa, quasi di una presa in carico più solenne di un’emergenza sanitaria, ma non solo, visto che interpella - e a fondo- anche tutta se stessa. 

È parso già dal mattino, il segno, anzi il nome, di questa svolta. All’Angelus quando Francesco, evocando la peste del Manzoni, ha parlato di don Abbondio. Proprio una brutta parola, quasi una bestemmia, per la generosità della chiesa al tempo del coronavirus. Ma quel nome, il Papa, l’ha pronunciato per dire ai sacerdoti come non comportarsi, e soprattutto per ringraziare i tanti che hanno già preso la strada opposta, quella del coraggio e della vicinanza nella condizione del tutto inedita ed eccezionale delle chiese chiuse e della prima domenica senza messe con i fedeli. La chiesa sta facendo i conti già dai primissimi momenti con questa epidemia che, oltre a sconvolgerne la vita liturgica ordinaria, sembra metterla alla prova anche sul piano più vasto dell’impegno pastorale, proprio quello che sta più a cuore a Francesco. Il segno di qualche incertezza iniziale si poteva cogliere già, nei giorni scorsi, durante l’omelia della Messa a Santa Marta, quando, seppure in tono sommesso, il Papa aveva espresso dubbi sulla drasticità delle restrizioni. Non era tanto una critica al governo, quanto una manifesta perplessità sull’interpretazione delle misure. Di qui la parziale correzione del Vicariato di Roma, la diocesi del Papa, con l’apertura al culto, seppure non alle celebrazioni, delle chiese parrocchiali. Stessa misura adottata tempestivamente a Napoli, con le chiese aperte in alcune ore della mattinata, mentre a Pompei, il santuario mariano della regione, la limitazione, fin dal primo momento, aveva riguardato solo le cerimonie liturgiche. 

Quel Don Abbondio sulla bocca del Papa - e per contrasto l’immagine dell’arcivescovo di Milano in preghiera solitaria e a braccia aperte verso la Madonnina del Duomo (ma anche a Napoli, il cardinale Sepe aveva implorato la protezione del patrono San Gennaro) - ha però reso ancora più evidente che anche per tutta la Chiesa questo tempo non sarà senza conseguenze. 

È una Chiesa che, in qualche modo, viene a trovarsi sotto esame, interpellata da una calamità non solo imprevista ma insidiosa ben al di là del suo aspetto sanitario. A molti fedeli è parso troppo arrendevole il modo in cui essa si è adeguata alle restrizioni imposte dal governo. Non era in gioco la possibilità di un «braccio di ferro» - del tutto fuori luogo e privo di senso. Ma sono apparse forse un po’ timide le ragioni che, almeno in teoria, avrebbero potuto mitigarne le modalità. Mai era accaduto, neppure in tempo di guerra, che la Chiesa chiudesse le porte e vivesse una così drammatica sospensione della sua vita sacramentale e liturgica. Di riflesso, anzi, veniva in primo piano l’immagine della chiesa di prima linea, già dal medioevo, nella cura e nell’assistenza non solo spirituale dei fedeli.
Un ruolo di aperto protagonismo, e di una forte rilevanza sociale, che il «pellegrinaggio» di Francesco ha riproposto in forma moderna, ma non meno suggestiva. Segni eloquenti e forti attraverso i quali, da solo, ha ribaltato l’immagine di una chiesa apparsa invece sottotono nei primi giorni del coronavirus. È forse proprio questo l’incrocio davanti al quale la chiesa si vede costretta a fare i conti. Il magistero tutto pastorale di Papa Francesco, se da un lato spinge a un contatto più continuo e diretto con i fedeli, dall’altro - per rafforzare l’efficacia dell’incontro - induce a prendere le distanze, a non immischiarsi troppo con gli organi di potere verso i quali è però assicurata la cordialità dei rapporti e un sincero spirito di collaborazione. Sembra questo il modo nuovo con il quale la chiesa si confronta oggi con la società civile. Un equilibrio talvolta difficile e legato, anzi condizionato, dalle diverse sensibilità di singoli pastori. Può accadere che in un momento di così accentuata transizione si creino situazioni di scarsa convergenza. In prospettiva è però uno dei problemi del dopo-emergenza.

Ma quel don Abbondio sulle labbra del Papa è stato anche il nome alla rovescia per indicare che i sacerdoti non hanno smarrito, in giorni come questi, la strada della prossimità e dell’aiuto generoso, non solo ai fedeli ma a tutta la popolazione; a cominciare naturalmente da chi soffre. 

In questo senso è una Chiesa che sta accettando la sfida anche sul campo della fantasia e dell’inventiva. Aiutano certo i social e le nuove tecnologie, con le messe in streaming trasmesse da chiese e da canoniche, ma tra le poche persone che si vedono per strada, molti sono preti che portano i Sacramenti nelle case. Molti anche qui a Napoli e in tutta la diocesi. 

L’emergenza, sanitaria o no, è parte della vita della chiesa. Una Chiesa di terra e di cielo», secondo l’espressione del cardinale Bassetti, il vescovo a capo della chiesa italiana per il quale «se la Chiesa in Italia ha sempre il respiro del suo popolo, molto si deve ai suoi preti». Da Bergamo viene l’ultima drammatica e più attuale conferma: 20 sacerdoti diocesani colpiti dal coronavirus. Sei morti. 
Ha ragione il Papa: non è tempo per i don Abbondio.
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