CSN&Y, «Dèjà vu» 50 anni dopo: quattro nemici al bar country rock

Crosby, Stills, Nash & Young, epoca "Dèjà vu"
Crosby, Stills, Nash & Young, epoca "Dèjà vu"
di Federico Vacalebre
Venerdì 3 Aprile 2020, 00:58 - Ultimo agg. 11:14
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«Appena siamo arrivati a Woodstock/ eravamo addirittura mezzo milione/ e ovunque era canto e celebrazione./ E ho sognato che ho visto i bombardieri/ che volavano nel cielo/ trasformarsi in farfalle/ sopra la nostra nazione» (Joni Mitchell, «Woodstock»)
«Siamo indifesi, indifesi, indifesi» (Neil Young, «Helpless»)

Quel disco da otto milioni di copie vendute sembrò l’epitome della stagione hippy, ma ne fu l’epicedio. I quattro avevano esordito insieme proprio a Woodstock, con Neil Young che si aggiunse a David Crosby (ex Byrds), Stephen Stills (ex Buffalo Springfield, proprio come il canadese) e Graham Nash (ex Hollies, unico inglese). Proprio la fidanzata di quest’ultimo, Joni Mitchell, aveva scritto l’inno dei tre giorni di pace, amore e musica, «Woodstock»: lei lo inserì nel suo terzo lp, «Ladies of the canyon», pubblicato il 2 marzo 1970, CSN&Y. la inclusero pochi giorni dopo, l’11 marzo di cinquant’anni fa, in «Déjà vu», il loro primo album, probabilmente anche l’unico, anche se poi arriverà il capolavoro live di «Four way street», a spiegare che il loro era un «four way marriage», un matrimonio che viaggiava in quattro sensi, spesso divergenti.
«Déjà vu» è qualcosa di mai visto, né tantomeno ascoltato, un supergruppo messo in piedi da Ahmet Ertegun, storico produttore discografico, che, in realtà, al trio, dopo il disco d’esordio del ‘69 (« Crosby, Stills & Nash») aveva proposto come quarto incomodo prima Jimi Hendrix poi Stevie Winwood. Il country rock brilla nella sua versione più psichedelica, la summa degli ego in campo è una lotta vanitosa che sfancula subito la retorica hippy. Ma, all’inizio ci cascò persino Lenny Kaye, futuro chitarrista del Patti Smith Group e grande critico/storico del rock: il segreto del disco, del poker d’assi, scrisse su «Circus», «è l’amore che provano l’uno per l’altro. Se il gruppo non esistesse, sarebbero comunque amici. Se non fossero amici, sarebbero fratelli». Non era vero, si detestavano, erano fratelli-coltelli, facevano la gara a chi ce l’aveva più lungo, ed erano solo all’inizio, dopo si sarebbero odiati ancora di più, nonostante qualche revival (come il live del 2008), qualche concessione alla nostalgia canaglia.
Il genio malato Crosby, classe ‘41, con i Byrds aveva già portato il folk-rock al suo apice, poi aveva inventato l’acid rock, il raga rock e lo space rock, preparandosi a scrivere nella propria carne e nella propria voce la saga di un sopravvissuto a se stesso, ai fantasmi della mente, alle droghe più tossiche: oggi, quasi ottantenne, lamenta il rischio di perdere la casa in cui vive causa coronavirus visto che ha dovuto annulllare il suo tour e sembra non passarsela bene economicamente. Stills, classe ‘45, polistrumentista, era considerato artisticamente il meno dotato dei quattro, ma lui si sentiva invece il più cazzuto, il vero rocker. Nash, classe ‘42, stava scoprendo l’America, e gli stupefacenti, si intende dopo aver dato la sua mano alla British invasion passando persino per Sanremo in tandem con Mino Reitano (!) dividendo «Non prego per me» di Battisti e Mogol. Young, classe ‘45, caposcuola assoluto, aveva già inciso i primi due lp solisti e si preparava (nel ‘70 avrebbe dato alle stampe il capodopera «After the gold rush») ad una carriera senza paragoni, che lo vedrà decenni dopo acclamato persino come padrino del grunge. A posteriori, visto il peso delle rispettive carriere, si può ben dire che aveva più bisogno il trio di lui che lui del trio.
I quattro si stavano sulle palle, ma le loro voci armonizzavano alla grande e... l’unione in quel momento faceva la forza e, soprattutto, conveniva a tutti. Leggenda vuole che ci vollero 800 ore di registrazione per completare l’lp, ma di sicuro non le spesero insieme: eccezioni che confermano la regola a parte, ognuno incise i suoi contributi per i fatti propri, Still cancellò diverse voci e chitarre dei colleghi, Neil partecipò solo a mezzo disco, firmando con Stephen l’inutile pezzo finale, «Everybody I love you», l’unico che non portasse una firma sola.
Tra profumi di incenso e di erba, si staglia nell’opera la generazione che aveva combattuto contro la guerra in Vietnam, da lì a poco Young scriverà l’instant song «Ohio» per urlare al mondo, peraltro in compagnia dei tre soci, quello che stava succedendo in America, per dire come il potere stava massacrando la sua meglio gioventù. Ma nel disco, dentro la copertina vintage, ci sono canzoni e suoni che nascono da incubi privati (Stills si era separato da Judy Collins, appena celebrata in «Judy blue eyes», Nash aveva rotto con Joni Mitchell, ex di Croz, la cui compagna Christine Hinton era morta da poco), oltre che collettivi. «Helpless» (Young) è il manifesto della disperazione cosmica, roba da Leopardi dell’Ontario, altro che estate dell’amore. «Teach your children» (Nash) e «Almost cut my hair» ( Crosby) sono inni per il movimento dei ribelli senza pausa ma con causa, dei ragazzi dai capelli lunghi agitati dal vento come bandiere. «Our house» è un racconto color pastello dei giorni casalinghi della coppia Nash e Mitchell, «Country girl» una minisuite younghiana che profetizza quello che succederà: «Mentre le star siedono nei bar e decidono cosa bevono, inciampano per morire perché è più veloce che affondare».
Forse una band alle spalle ci sarebbe stata bene, eppure per cinquant’anni è sembrato che bastassero, al fianco di quelle quattro voci e quelle quattro chitarre, la batteria di Dallas Taylor e il basso di Greg Reeves, con appena due comparsate di Jerry Garcia alla pedal steel guitar e John Sebastian all’armonica. Pur cantando le lodi di «Woodstock», il quartetto celebrò la fine di tutto, anticipò Altamont e il funerale del flower power, tra poco avrebbe scoperto quanto costava la libertà («Find the cost of freedom»). Anche per questo, visto che se la rivoluzione non era a portata di mano almeno si poteva pagare sulla propria pelle il costo della libertà di scegliere i propri compagni di rock, CS&N torneranno spesso insieme, anche quando non ce n’era bisogno, sfoggiando la Y finale molto più raramente. E sarà, sempre e comunque, un déjà vu, un déjà entendu, un già visto, un già sentito.
Ps.

Ma che delusione quando, come Lenny Kaye, capimmo che CSN&Y non erano amici, che quello non era il disco dell’amore ma dell’ego molesto. E ci sentimmo tutti «indifesi, indifesi, indifesi».

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