Coronavirus, marito muore, lei rimane sola con sette figli e si laurea: «Dolore lacerante»

Coronavirus, marito muore, lei rimane sola con sette figli e si laurea: «Dolore lacerante»
Venerdì 10 Aprile 2020, 11:49 - Ultimo agg. 12:50
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É rimasta vedova per colpa del coronavirus, ha sette figli, la paura di essere rimasta sola. Come inizia il futuro con un presente così? Dai piccoli passi che sono falcate. Cinzia Trevisan, la protagonista di questa storia, ha deciso di riscattare tutti gli esami in Lingue e leterature straniere e si è laureata pochi giorni dopo la perdita del marito. Tesi su Lutero e la traduzione della Bibbia. 

«Mi chiamo Cinzia, ho 51 anni e sette figli. Racconto brevemente la mia vita a partire dal 1993, anno del mio matrimonio con Giancarlo, lo sposo con cui ho condiviso tutte le mie giornate negli ultimi ventisei anni. L’uomo che ha visto la parte migliore ed anche quella peggiore di me, con cui ho condiviso i pasti, le vacanze, vicino al quale mi sono addormentata sul divano, o meglio ci siamo addormentati entrambi. L’uomo che è entrato in sala parto quando sono nati i nostri figli, che ha fatto il mutuo per la casa e lo stava pagando con il suo lavoro, tutti i giorni di quasi tutto l’anno, nella lavanderia che era stata di suo padre e, prima ancora, di suo nonno».

Giancarlo non c'è più. Se lo è portato via il coronavirus. E lei Cinzia Trevisan, 51 anni di Gossolengo (Piacenza), ha scritto la sua storia sul sito dell'ssociazione Famiglie numerose. Racconta esperienza comunissime: i viaggi programmati e non fatti, i sacrifici, la malattia. A scorrerle si sente il ticchettio di una quotidianità scandita da cose piccole, piccolissime. 

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«Abbiamo fatto un breve viaggio di nozze in Umbria, ripromettendoci di farne uno come si deve non appena avessimo potuto, opportunità che non si è mai presentata. Ma non importa, la nostra vita è stata molto felice», scrive Cinzia che nomina tutti e sette i figli: Martina, Michela, Miriam, Mattia, Samuele, Ester, Davide. 
«Finanziariamente era difficile», scrive Cinzia. D'altronde lavorava solo Giancarlo.

Ma Giancarlo si è ammalato alla fine di febbraio di quest’anno. «Aveva la febbre alta, poi la tosse. Influenza, dicevano i medici. Tranquilli, bisogna avere pazienza, non occorre fare il tampone per il coronavirus. Scusate, ho quasi il rifiuto di scrivere quella parola», si legge nel resoconto di Conzia.
«Dopo dodici giorni di malattia, di notte, mio marito si è aggravato. Ho chiamato l’ambulanza, finalmente lo hanno portato in ospedale dove, dopo altri dodici giorni esatti, è morto. Ho visto per l’ultima volta Giancarlo il 10 marzo, giorno del compleanno suo e di nostra figlia Miriam. Lui compiva 53 anni, lei 23», scrive.

«Abbiamo pranzato insieme e spento le rispettive candeline su una torta al cioccolato preparata in casa. Nella notte, i miei figli hanno sicuramente sentito il trambusto degli operatori sanitari in casa nostra, ed hanno avuto paura. Samuele si è alzato, ha visto, e con coraggio ha aiutato i due giovani operatori a trasportare il padre incosciente dalle scale della nostra abitazione all’ambulanza, operazione difficoltosa perché la barella non passava per l’ingresso stretto di casa nostra», si legge ancora. 

Anche lei che ha fede ammette: «Non ho una spiegazione logica per quello che è successo, e dopotutto non mi viene richiesto di averla. Il dolore della ferita è lacerante. Brucia come il sale su un taglio profondo», scrive. 
 

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