Valeria, infermiera in trincea da due mesi:
«Non dimenticherò le lacrime per Popof»

Valeria, infermiera in trincea da due mesi: «Non dimenticherò le lacrime per Popof»
di Silvia De Cesare
Giovedì 21 Maggio 2020, 06:40 - Ultimo agg. 08:19
3 Minuti di Lettura

Ha appena terminato un turno di due notti: Valeria Lamberti, infermiera presso l’Ospedale Santa Maria dell’Olmo di Cava de’ Tirreni, è stanca. Alle spalle 60 giorni di lavoro massacrante per il corpo e per la mente trascorsi tra la tenda allestita per l’emergenza Covid, l’isolamento e le stanze del pronto soccorso. Un’esperienza che la segna non solo professionalmente, ma guai a definirla un’eroina: questa professione, che l’è capitata un po’ per caso (dottoressa in scienze motorie, qualche anno dopo si laurea anche in scienze motorie) è inconsciamente l’unica strada che conosce. «Non è stata la mia prima scelta - dice - è vero, ma lo rifarei. Per me non è un lavoro, ma una professione che svolgo con amore». Valeria ci mette talmente tanto cuore che riesce a parlare ai pazienti con gli occhi: «Si vede il vostro sorriso anche se avete la mascherina» le dicono in molti. Per tutto questo tempo l’essere infermiera è stata la sua missione. Ha scelto di isolarsi volontariamente dalla famiglia e di vivere in mansarda, onde evitare di avere contatti con i genitori e la sorella. I pasti le vengono portati con un vassoio e lasciati a distanza. 
 


Cavese, raggiunge l’ospedale a piedi, con la mascherina. «L’unica boccata d’aria che mi concedo da due mesi, all’andata e al ritorno. Cerco di non fermarmi con nessuno. Proprio adesso non dobbiamo abbassare la guardia». Sguardo basso e passi veloci, ogni giorno raggiunge l’ospedale e, prima di prendere servizio, segue l’iter della vestizione, l’unica arma, con il quale “si trasforma” in un angelo anonimo. Per avere un’identità si scrive il proprio nome sulla mascherina con un pennarello. «Siamo bardati di tutto punto - prosegue - e leggere quel nome non è solo un modo per indentificarci tra colleghi ma vuol dire anche tendere la mano ai pazienti tanto spaventati. In realtà lo siamo anche noi. In questo lungo periodo c’è stato un episodio che mi ha messo alla prova e fatto capire la gravità del virus. Per giorni ho pianto, come non avevo mai fatto». 

Mentre torna a commuoversi, Valeria riavvolge il nastro e si ferma a fine marzo. «Ero di turno in isolamento - racconta - quando arriva un ragazzo. Aveva la febbre e i valori della saturazione di ossigeno oscillavano tra il 96 e il 97%, normali». L’infermiera fa riferimento a Angelo Senatore, da tutti conosciuto come Popof, che nel giro di poche ore viene attaccato alla ventilazione, ma la mascherina gli dà fastidio. «Gli chiedevo quasi insistentemente “Angelo come sta?” e lui mi rispondeva bene ed era quasi stranito dal mio essere persistente».
All’improvviso i valori della saturazione scendono. «Non potrò mai dimenticarlo. Angelo è stato intubato alle 13.27 e alle 14 terminava il mio turno. Il giorno dopo scopro che è stato trasferito a Salerno. Per dieci giorni ho provato in tutti i modi ad informarmi sulle sue condizioni fino a quando mi hanno riferito che non ce l’aveva fatta: in due ore il collasso dei polmoni e la sua dipartita». Popof è la sesta vittima del coronavirus a Cava: la più giovane, appena 46 anni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA