«Il mio papà Bud Spencer, un supereroe forte e felice»

«Il mio papà Bud Spencer, un supereroe forte e felice»
di ​ Cristiana Pedersoli
Lunedì 15 Giugno 2020, 08:52
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Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore Giunti, alcuni stralci dal libro, «Bud. Un gigante per papà» (pagine 184, euro 16,50, in libreria il 17 giugno 2020) dedicato da Cristiana Pedersoli al padre Bud Spencer, all'anagrafe Carlo Pedersoli, nato a Napoli il 31 ottobre 1929 e scomparso il 27 giugno 2016 a 86 anni. L'autrice, madre di Nicolò e Sofia, di 28 e 24 anni, vive a Roma dove lavora come artista e ideatrice insieme al padre del progetto «No regrets», volto alla raccolta di fondi per la tutela dei diritti dell'infanzia e a sostegno delle donne vittime di violenza.

All'alba del 31 ottobre 1929, in via Generale Orsini 40, a pochi metri dal golfo di Napoli, fu festa grande: dopo molte ore di travaglio nacque un bel bambino di sei chili e mezzo. Come amava dire lui, «ero un Maciste», fatto innegabile al quale mio padre attribuiva il suo passionale rapporto con il cibo. «Mariucci» cercava di spiegare molti anni dopo a mia madre quando lei provava ad abbondare con la verdura e a lesinare su pasta e carne «devi capire che non è colpa mia: sono nato di oltre sei chili, non posso farci niente!»

Insieme alla mole, dal ramo paterno della famiglia aveva ereditato l'indole sportiva: suo padre, mio nonno Alessandro, per tutti Sasà, era un ottimo atleta, nella cui libreria spiccavano coppe e medaglie vinte in gioventù. Avendo intuito la passione di mio padre per l'acqua, a otto anni lo iscrisse al Circolo Canottieri Napoli, dandogli modo di sviluppare il suo talento e di apprendere non solo come si nuota, ma anche come si vive: «Lo sport è tutto» amava ripetere mio nonno, «ti insegna quelle regole e quei valori che poi ti ritrovi nella vita».

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In via Generale Orsini a Napoli, i dirimpettai della famiglia Pedersoli erano i De Crescenzo, il cui figlio Luciano aveva appena un anno più di papà. I due erano amici e passavano spesso i pomeriggi insieme. In quell'età in cui l'infanzia comincia a tingersi di adolescenza capitava che nascessero dei diverbi con gli altri ragazzi del quartiere. De Crescenzo era molto sveglio, provocatore, salace, ma gracile, e spesso e volentieri avrebbe rischiato di essere malmenato se non fosse stato per l'amico grande e grosso che si portava appresso, che mostrava i muscoli e lo difendeva dai bulletti del Pallonetto di Santa Lucia.

Nel mondo bianco e nero dei bambini, ai miei occhi papà era tutto bianco.
Non andavo nemmeno a scuola quando cominciò a girare i suoi film: senza barba non me lo ricordo. Per me è sempre stato il supereroe che prendeva a schiaffoni i cattivi, senza fare mai seriamente male a nessuno. Non andava mai Ko: i suoi nemici gli spaccavano sulla schiena sedie, tavoli, pietre, ma invano, perché lui si girava, stringeva gli occhi, apriva la bocca in un ghigno di disappunto, assumeva un'espressione da finto burbero e, con le mani gigantesche che così ben conoscevo, faceva letteralmente volare chi voleva ferirlo o disturbarlo mentre trangugiava fagioli e polpette in quantità. Difendeva sempre i più deboli: le donne, i bambini, oltre naturalmente a Luciano De Crescenzo.

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Vidi per la prima volta Terence Hill quando ancora si chiamava Mario Girotti, sul set del primo film che girò con mio padre. Avrò avuto circa sei anni e un giorno mi portarono tra le scenografie allestite vicino al fiume Volturno, nei pressi di Venafro, per il mio battesimo del set. La scena che stavano girando prevedeva che papà attraversasse il fiume con Terence sulle spalle. La ripeterono svariate volte, sempre più bagnati e infangati. Il budget non prevedeva costumi doppi, per cambiarsi da un ciak all'altro, così il costumista ricopriva gli indumenti con la terra e gli attori ripartivano da capo. In quelle condizioni mi sarebbe stato impossibile capire chi avevo davanti: sembravano due cowboy che non si lavavano da qualche anno Così a Terence non feci molto caso, anche perché volevo solo correre da papà e abbracciarlo, nonostante il fango e la sporcizia.

Soltanto qualche anno dopo, durante le riprese di « continuavano a chiamarlo Trinità», cominciai a rimanere incantata alla vista del coprotagonista di mio padre. Avevo circa dieci anni e per la prima volta mi soffermai sui suoi occhi: erano così intensi, limpidi e profondi. Due calamite straordinarie. Terence aveva come al solito i capelli scompigliati e polverosi, ma un volto etereo, un fisico atletico, abbronzato dal sole e dal trucco. Se ne stava spesso in disparte, concentrato a ripetere le sue battute: con accento caldo e preciso faceva sgorgare dalla bocca fiumi di parole che sembravano rubate a un libro, poi rimaneva di nuovo in silenzio. Mentre studiava la parte alzava un muro impenetrabile tra sé e il mondo. Si estraniava completamente dal contesto, poi ogni tanto alzava gli occhi, intercettava i miei e accennava un dolce sorriso. Era molto gentile ed estremamente bello.

Un'altra delle differenze tra lui e papà: Terence era un attore professionista. Aveva recitato da quando era bambino, e con i più grandi (da Dino Risi a Gillo Pontecorvo). Voleva fare quello e aveva studiato per riuscirci. Mio padre no. Era un talento naturale, ma non si poteva dirglielo, perché preferiva continuare a sentirsi un dilettante. Un pensiero che gli permetteva di non prendersi troppo sul serio e di continuare a fare ciò che veramente gli interessava, ovvero godersi la vita. Nel caso specifico, divertirsi lavorando. Forse per l'età che avevo, i primi set per me erano magia pura.

Mi guardavo intorno con lo stesso stupore che provavo quando papà mi affascinava con uno dei suoi trucchetti. Per esempio, quando fumava riusciva a nascondersi la sigaretta in bocca: un giorno, mentre facevo i capricci, mi si avvicinò, la brace emise una densa nuvola di fumo e poi di colpo si fece sparire la sigaretta in bocca. Io rimasi sbalordita e smisi all'istante di piangere. Dopo qualche secondo, con una mossa repentina delle labbra e della lingua, fece uscire la cicca, ancora incandescente. Oppure, se dovevo fare una puntura, mi distraeva con un trucco elementare, che a me pareva straordinario. «Guarda!» esclamava per catturare la mia attenzione, e mi mostrava entrambe le mani vuote; poi faceva schioccare le dita vicino al mio orecchio e tirava fuori una monetina, un altro schiocco e un'altra monetina. Alla fine, mentre ero frastornata e con il sedere ancora dolorante, si congratulava con me e mi diceva che ero stata coraggiosa.

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Per anni non sono riuscita a capire perché dicesse che non sarebbe mai riuscito a essere quello che è stato se non fosse nato a Napoli.

Poi abbiamo organizzato una mostra intitolata a mio padre proprio lì, e ho cominciato a frequentare la città, a scoprirne l'anima. Prima l'avevo visitata superficialmente, avevo mangiato la pizza da Ciro e avevo accompagnato papà a ritirare la medaglia della città, nel 2015, non abbastanza per carpirne la magia. Ora ho scoperto, invece, che quella città è un concentrato di energia: la gente ha un'identità fortissima, è orgogliosa delle proprie radici, della propria storia, del cibo e del paesaggio. Nei vicoli, sul porto, sul lungomare si respira il sole: papà diceva che non avrebbe potuto essere diverso da com'era, «essendo nato in un posto dove il sole splende ventiquattro ore al giorno». Era un'esagerazione, ma anche questo modo di raccontare le cose è molto napoletano: forse i napoletani sentono il sole addosso ventiquattro ore al giorno, cosa che al resto d'Italia è preclusa; forse la vicinanza al Vesuvio, che al contempo ammalia e minaccia, e al mare, che nutre e spaventa, ha insegnato loro a scovare la gioia anche dove apparentemente non c'è. E, se proprio non c'è, a inventarla. Credo sia questo il segreto della loro abilità nella recitazione, che papà ha poi portato con sé sul set.

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