Iggy Pop a Berlino:
gli anni di Bowie

Iggy Pop e David Bowie
Iggy Pop e David Bowie
di Federico Vacalebre
Mercoledì 24 Giugno 2020, 00:07 - Ultimo agg. 07:14
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 Nei giorni del locdown a portare un po’ di vita nella noia della clausura del recensore frustrato dall’assenza di novità ci ha pensato un cofanetto, poi uscito a fine maggio, della Universal, «The Bowie years», cronaca profana del periodo berlinese di Iggy Pop (Muskegon, 21 aprile 1947), epica maledetta di come un dio del rock - il Duca Bianco - ringraziò un altro dio del rock - l’Iguana - aiutandolo a lanciare la propria carriera solistica dopo l’avventura nichilista degli Stooges.
I due si erano conosciuti durante le registrazioni di «Raw power» (1973), terzo e ultimo lp degli Stooges: Iggy Pop, dopo Lou Reed, naturalmente, era stato un’ispirazione fondamentale per il rocker che cadde sulla terra, intenzionato a rendere il piacere all’amico, partendo da una comune disintossicazione dalla cocaina. Così lò invitò a seguirlo nel tour di «Station to station», ma nei backstage di polvere bianca, e non solo, ne circolava così tanta che, i due decisero di cambiare aria. Prima Parigi, poi Berlino li accolsero: la città divisa in due, con la sua aria decadente come le sue avanguardie, diede loro quello che cercavano. Bowie (Londra, 8 gennaio 1947 – New York, 10 gennaio 2016) lavorò con Brian Eno a «Low» (‘77), primo disco della sua trilogia berlinese, anche se in realtà all’ombra del muro nacque solo il successivo «Heroes» (‘77), prima che «Lodger» (‘79) venga a chiudere il trittico. Anche James Newell Ostenberg jr (così all’anagrafe) concepì una trilogia, aperta da «The idiot», seguito da «Lust for life», che è l’unico altro disco dei sei registrato agli Hansa Tonstudio di Berlino, e dal live «Tv eye».
David e Iggy nel 1977 presero casa al numero 155 di Hauptstrasse, nel quartiere di Schöneberg, dividendola con l’assistente del primo, Coco Schwab, e la fidanzata, e fotografa, del secondo, Esther Friedman. I Dum Dum Boys, così li chiameranno da un titolo dell’album ispirato all’Idiota di Dostoevsky, scorrazzavano nell’enclave della Ddr a predominanza turca passando da un club a una mostra, da un museo a un bar, sempre più innamorati dei lavori di Erich Heckel, espressionista tedesco condannato dal nazismo alla damnatio memoriae, un cui quadro, «Roquairol» ispirò le copertine di «Heroes» e «The idiot».
Erano due alieni tra giovani alienati, due spugne che assorbivano quello che li circondava. Bowie spinse mister Pop a «raffreddare» il vulcano messo in scena con la sua ex band. Gli suggerì uno stile, una vocalità, un’espressione più «controllata» - si fa per dire - e fredda, anzi cinica. Gli Stooges lo avevano santificato padrino del punk, erano stati un viaggio al termine della notte del rock, ma la nottata non passava mai per il protagonista di quell’avventura. David capì che doveva salvarlo, lo spinse a occupare un ruolo molto più «cool» di quelle autodistruttivo del giovin selvaggio americano. A Los Angeles erano stufi di lui, la polizia lo arrestava un giorno sì e l’altro pure, perché non pagava il parcheggio, perché vestiva da donna (era reato all’epoca)... sino a farlo ricoverare nell’istituto neuropsichiatrico locale, tentando la strada del recupero.
Che il periodo berlinese sia stato casto e puro non lo dice nessuno, ma di sicuro i due trovarono un prezioso filone creativo. E David, che stava cambiando faccia al rock, rendendolo mitteleuropeo e sintetico, diede una mano da coautore e produttore a Iggy, come riassume il cofanetto, che contiene il trittico «The idiot» (‘77), «Lust for life» (‘77) e «Tv eye» (‘78), più altri quattro cd, di cui tre live e uno di rarità, oltre a un libretto di 40 pagine.
Il suono hard’n’heavy lasciò posto a una lascivia più controllata, piuttosto di scatenare l’inferno, Iggy sembrava incatenare sé e gli ascoltatori in un limbo, pagando con una condanna senza possibilità di redenzione anche i peccati non (ancora) commessi, respirando l’aria della guerra fredda, pagando tributo alla svolta elettronica innescata dai Kraftwerk.
Dagli inni sballati alla consapevolezza autoironica, al melodramma esistenziale. Dalla chitarra rabbiosa al freddo suono dei synth. «Lust for life», oltre alla title track, contiene almeno un altro classico entrato nella storia del rock, «The passenger», ma nel disco c’era anche quella «China girl» che Bowie rilancerà poi nel 1983 in «Let’s dance», con la complicità di Nile Rodgers. Il suono cupo che l’Iguana trovò a Berlino sarà punto di riferimento per nuove generazioni: se con gli Stooges aveva stimolato Ramones e Suicide, questa volta a prendere spunto dai suoi singulti saranno Joy Division e Depeche Mode, ma anche Grace Jones e i Nine Inch Nails.
Bowie, che sapeva che «possiamo essere eroi solo per un giorno», aveva restituito a Iggy, come aveva fatto con Lou Reed al tempo di «Transformer» (1972), l’ispirazione rubatagli. I «Bowie years», in fondo, sono anche il racconto di un’amicizia, non di solo maledettismo vive il rock’n’roll.