​«Io, trans, amo la Madonna: ora chiamatemi Lourdes. Mio padre era un boss di camorra»

​«Io, trans, amo la Madonna: ora chiamatemi Lourdes. Mio padre era un boss di camorra»
di Daniela De Crescenzo
Domenica 22 Marzo 2015, 10:02 - Ultimo agg. 16:49
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«Il mio nome è Daniela Lourdes: Lourdes perché sono devota alla Madonna, sono religiosa e sono felice di essere arrivata a Scampia ad ascoltare Papa Francesco. Lourdes è il nome che ho scelto io. L'altro, Raffaele Falanga l'avevo ereditato dalla mia famiglia. Non l'ho voluto: era un nome maschile e io mi sentivo donna. Il cognome era anche peggio: veniva da un mafioso. Mio padre»: la storia di Daniela, responsabile dei trans dell'Arcigay è di quelle da romanzo.



Jeans attillati e giubbino rosa, trucco discreto e occhiali scuri, Daniela Lourdes arriva con Fabio che era una donna ed adesso è un ragazzo e cammina a braccetto con la sua mamma; con Carla e Marilena che portano in braccio il bimbo che hanno avuto grazie all'inseminazione artificiale; con Antonello che presiede l'Arcigay: hanno chiesto al Papa di partecipare alla grande festa di Scampia e lui ha detto sì. Ma la storia di Daniela non è solo la storia di un bambino che non si è riconosciuto nei vestiti che portava e nel sesso che le era stato assegnato. Lei ha dovuto liberarsi anche da un altro giogo: quello di un padre padrone che aveva fatto della violenza e della sopraffazione la sua regola di vita.



«Mia madre apparteneva a una famiglia normale, per bene, che non aveva nulla a che fare con la malavita - racconta - Si innamorò di mio padre: un delinquente, un mafioso di una delle famiglie più potenti del Vesuviano. Andarono a vivere insieme, ma lui la picchiava, la copriva di violenze, abusava in ogni modo di lei. Io stavo per nascere quando i miei nonni riuscirono a liberarla e a riportarla a casa, praticamente la rapirono».



Ma non era finita: «Quando nacqui la mia nonna paterna volle che il mafioso mi riconoscesse ed è per questo che porto quel cognome: Falanga. Ogni domenica andavo a casa loro: mia madre mi costringeva a vedere mio padre e mi faceva subire la sofferenza di un figlio negato. Vivevo in un incubo: io c'ero, ma lui non mi vedeva, mi faceva vivere nell'indifferenza che si può avere per un oggetto».



Ma il peggio per Daniela doveva ancora arrivare: «La situazione diventò drammatica quando capii che non volevo essere un maschio, che non ero Raffaele e non volevo diventare un uomo come mio padre. Io ero diversa: ero una donna. E detestavo la violenza. Quello di mio padre non era il mio mondo, non era là che volevo vivere. Quando decisi di accettarmi per quella che ero, mio padre era in galera e fu là che gli raccontarono tutto. Diede ordine all'intera famiglia di non avere più alcun rapporto con me. Io ero molto legata a mia cugina: non l'ho più vista, lui ha voluto che si allontanasse. Ho vissuto un periodo di solitudine terribile. Intanto a diciotto anni ho deciso di operarmi e di cambiare il mio nome prendendo la distanza da tutta la famiglia anche se ero un'adolescente smarrita. Il cognome no, quello resta. Io e mamma ci siamo avvicinate, adesso stiamo bene insieme e a volte non ricordiamo nemmeno il passato».



Una strada lunga quella affrontata da Daniela per arrivare a Scampia dal «Padre di Misericordia» come è scritto su un grande lenzuolo agitato come striscione. Una strada difficile che adesso riesce a raccontare: «Per me è cambiato tutto quando ho cominciato ad accettarmi - spiega Daniela - sono diventata più serena e ho anche cominciato a lavorare come operatrice sociale». La religiosità è stata, però, un elemento costante nella sua vita: «Io sono profondamente credente - conclude - e sono sempre stata legata alla Madonna: lei mi ha sempre confortata. Perciò sono felice di essere qui, a Scampia, con Papa Francesco».