Disastrologia, racconti dell'estremo:
Unina progetta l'archivio digitale

Disastrologia, racconti dell'estremo: Unina progetta l'archivio digitale
di Cristian Fuschetto
Giovedì 19 Ottobre 2017, 10:10
6 Minuti di Lettura
Si racconta un disastro perché si è sopravvissuti, si racconta un disastro per continuare a sopravviverne. In un mirabolante saggio tra biologia, letteratura, neuroscienze e psicologia, Jonathan Gottschall, docente di inglese al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, definisce l’uomo “the storytelling animal”. Difficile dargli torto. Siamo immersi nelle storie, dai “facciamo che io ero” dei bambini alle narrazioni con cui gli adulti danno un senso a cose altrimenti incomprensibili come la politica, le malattie o le routine quotidiane. Elaboriamo racconti persino in quelle fiction autogestite chiamate sogni. Potremmo forse astenerci dal potere taumaturgico del racconto di fronte a terremoti, eruzioni vulcaniche e altre sciagure? Ovviamente no.
 
 

Un Erc da 1,5 milioni per studiare le catastrofi di ieri (e di oggi)
«Inquadrare anche solo narrativamente un disastro è dargli un senso e questa è la premessa che consente a qualsiasi comunità di costruire delle politiche di gestione delle emergenze», spiega Domenico Cecere, giovane storico del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II, vincitore del più ambito finanziamento europeo, un Erc Starting Grants da 1 milione e 481mila euro. Specialista dell’Età Moderna e del Mezzogiorno d’Italia, Cecere guiderà il progetto “Discompose” (Disasters, Communication and Politics in Southwestern Europe. The Making of Emergency Response Policies in the Early Modern Age) in programma da  febbraio 2018 a gennaio 2023. Cinque anni per provare a dare risposte a interrogativi non da poco. Per esempio: come reagirono i napoletani alla disastrosa eruzione del Vesuvio del 1631? La loro risposta tornò utile ai siciliani che dovettero far fronte, qualche decennio dopo (1669), a una delle più devastanti eruzioni dell’Etna? E, più in generale, cosa qualificava una catastrofe agli occhi di un europeo del Sei o Settecento e in che modo la cultura dei disastri ereditata negli ultimi secoli ha influenzato e continua a influenzare la moderna gestione delle emergenze?

«Si tratta di dinamiche che riteniamo scontate. Ma commettiamo un errore», ammonisce lo storico. «Resta infatti ancora prevalente una visione delle società di antico regime, specie dell’Europa meridionale, in cui le politiche di gestione dell’emergenza erano per lo più improvvisate, affidate unicamente alle comunità locali, i cui membri si mostravano generalmente passivi e rassegnati di fronte ai grandi eventi naturali. Alcuni studi hanno già demolito questo cliché, insistendo però soprattutto sull’affinamento di pratiche adattive e preventive suggerite dalla trasmissione, a livello locale, della memoria dei disastri del passato».

Quando dimenticarono che il Vesuvio era un vulcano 
Cronache rimaste manoscritte, memorie di parroci di campagna, preghiere, lamenti e invocazioni, rapporti di ufficiali e governatori locali, suppliche e petizioni delle popolazioni colpite, forte di un team interdisciplinare fatto di letterati, antropologi, climatologi e filologi, Cecere proverà a riscoprire testi trascurati dagli studiosi perché considerati di scarso valore letterario, artistico o scientifico ma che, dalla prospettiva dei “disaster text” diventano preziosi perché restituiscono una descrizione concisa ma efficace degli eventi. Per avere un’idea della mole di testi da raccogliere, basti pensare che per la sola eruzione vesuviana del 1631 sono stati censiti circa 250 testi prodotti nei mesi immediatamente successivi all’evento. Scritti che produssero dei risultati tangibili nella successiva "gestione dell’emergenza" (per usare impropriamente un’espressione contemporanea) in occasione dell’eruzione dell’Etna nel 1669. “Dopo un secolo di quiescenza – osserva Cecere – i napoletani erano del tutto impreparati a fronteggiare quel fenomeno, anche perché avevano perduto la memoria della natura vulcanica di quella montagna. Per gli esponenti delle classi dirigenti gli unici riferimenti disponibili erano, da un lato, i testi classici che descrivevano la celebre eruzione del 79 d.C., dall’altro, le notizie circolate una trentina d’anni prima sull’eruzione del vulcano Huaynaputina, in Perù, e le indagini promosse e diffuse dal personale politico spagnolo. Nel 1669, quando si verificò una delle più devastanti eruzioni dell’Etna, il sapere accumulato sui due eventi verificatisi decenni prima tornò utile per comprendere innanzitutto cosa stesse accadendo, e quali misure potessero essere adottate”.  

Un archivio digitale sulle scritture del disastro
Il progetto prevede la raccolta sistematica delle “scritture del disastro”: migliaia di testi e immagini sparsi tra biblioteche e archivi di mezza Europa saranno digitalizzati, trascritti e raccolti in un database. In questo modo sarà finalmente possibile combinare ricerche di distant reading (basate su analisi di grandi quantità di dati) e close reading (analisi ravvicinata e approfondita di un singolo testo e del suo contesto di produzione) e coniugare le capacità analitiche dei filologi con il trattamento informatico dei testi. “In questo modo sarà più facile cogliere trasformazioni e specificità in scritti di solito standardizzati e ispirati modelli antichi”. In questo senso “Discompose” può offrire un contributo importante allo studio dei disastri contemporanei mettendo in luce, per esempio esempio, la lunga vita di determinati schemi interpretativi che condizionano i modi in cui gli eventi eccezionali vengono vissuti e comunicati e affrontati.

Le humanities in “soccorso” delle tecnologie
Il ruolo delle scienze dure e l’approccio tecnocentrico sono e restano senz’altro fondamentale, tuttavia si fa sempre più evidente la consapevolezza per cui la sola tecnologia rimane insufficiente a prevenire e fronteggiare gli eventi estremi: i progressi nel funzionamento dei dispositivi tecnologici di controllo, i miglioramenti delle strutture ingegneristiche, l’ampliamento delle conoscenze delle caratteristiche fisiche degli eventi estremi non bastano ad evitare una strage, né sono sufficienti per aiutare le società colpite a riprendersi dal trauma e a mettere in atto dispositivi di prevenzione. «Per comprendere, prevenire e far fronte a un disastro – continua lo studioso – bisogna considerare, insieme all’evento fisico, le caratteristiche della società su cui esso impatta, colta in condizioni di vulnerabilità. Si tratta si condizioni storicamente, socialmente e culturalmente determinate. In questo senso, un’indagine storica sui racconti del disastro e sui loro effetti sulle politiche di gestione dell’emergenza può contribuire a mettere in luce in che modo le reti d’informazione, le conoscenze disponibili, i valori e le credenze prevalenti influiscano nello sviluppo delle risposte collettive alle minacce naturali». Per questo è auspicabile che geologi, sismologi e vulcanologi comincino a lavorare con studiosi di critica testuale, storici  dell’Arte, antropologi, storici della scienza e esperti di ecologia storica.

Studio dei disastri, specialità federiciana 
Discompose è per molti versi figlio di un altro progetto del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II, finanziato dal programma Star e coordinato dalla linguista Chiara De Caprio, al quale ha partecipato lo stesso Cecere. «Quel progetto si poneva l’obiettivo di esplorare le diverse forme in cui erano narrati i disastri che hanno colpito il Regno di Napoli tra la fine del Medioevo e l’età moderna, al centro dell’indagine erano dunque soprattutto i testi in cui trovavano spazio descrizioni e narrazioni degli eventi percepiti come disastrosi, le modalità narrative e i canali di circolazione delle notizie. Nel solco del precedente, ora spostiamo il focus: al centro della ricerca sono i processi culturali e istituzionali attraverso cui la produzione e circolazione di notizie su eventi estremi si traduce nella costruzione di schemi interpretativi che si fissano nell'immaginario collettivo».

In fondo è grazie a schemi del genere che sopravvivono le civiltà. Come ha spiegato Nietzsche, non è il male a far paura agli uomini, a terrorizzarli è il male senza senso. 
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