Andrea, Dario e gli altri:
l'Italia che vince all'estero

Andrea, Dario e gli altri: l'Italia che vince all'estero
di Cristina Cennamo
Lunedì 11 Dicembre 2017, 08:42 - Ultimo agg. 12 Dicembre, 09:33
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Cervelli in fuga, cervelli che vogliono tornare, cervelli che non cedono alle lusinghe dell'estero. Ce n'è davvero per tutti i gusti nel mondo dei ricercatori: ragazze e ragazzi che, dopo essersi dedicati allo studio anima e corpo, ambirebbero a una vita gratificante, fatta di progetti lavorativi e personali, magari con stabilità di lavoro, serenità economica e aspirazioni alla crescita. Tutte cose che, in Italia e ancor di più al Sud, è sempre più difficile ottenere soprattutto, ironia della sorte, quando il lavoro comporta un elevato livello di specializzazione e anni di studio.
Quanto pesa nel Duemila il legame con i propri affetti? Per Andrea Chirico, psiconcologo napoletano ricercatore a Roma, più di 3.500 dollari al mese. A tanto ha rinunciato per provare a costruire qualcosa qui dopo avere avuto successo in America. «Al termine del dottorato in Usa - racconta - scoprii che era facile accedere ai fondi per la ricerca e per l'acquisto di macchinari. A 28 anni ho cominciato a insegnare alla Temple University a Philadelphia, mentre in Italia, dopo tre anni di dottorato, ti aspettano dieci anni di precariato. Ricordo che un giorno partecipai a una riunione in cui mi chiesero un'opinione in merito a un progetto di realtà virtuale, subito dopo mi fecero firmare un contratto, quando arrivai all'ufficio economico mi corrisposero anche un anticipo sul salario che avrei dovuto percepire il mese successivo».

Se il buongiorno si vede dal mattino quello di Andrea era luminoso. Nominato adjunct professor, associato a tempo determinato, Chirico guadagnava 3.500 dollari al mese e pagava un canone di locazione di mille dollari. Poi arrivò il bivio: restare dall'altra parte dell'Oceano o tornare in Italia? «E io ho scelto di tornare - racconta Chirico - ma mi sono concesso un anno e se non va riparto per gli States. Lavorare qui è avvilente: se mi serve un visore ci vogliono anche quattro mesi, negli Stati Uniti in una settimana arrivava. Inoltre, dopo quattro mesi quel dispositivo non è più di ultima generazione e in questo modo, tuo malgrado, non sei mai al passo con gli stranieri».
Gli spazi per i ricercatori sono sempre più sacrificati, ancora di più se alla passione per il lavoro si unisce quella per la propria terra, come nel caso di Daniela Barone che, a meno di trent'anni ha già fatto una scoperta che potrebbe salvare milioni di vite. Suo, infatti, lo studio sulla dieta mediterranea e sulle proprietà del pomodoro San Marzano e Corbarino, capaci di bloccare caratteristiche neoplastiche delle cellule. «In futuro - spiega la scienziata - sarà possibile pensare a diete specifiche». Una scoperta con risvolti enormi anche per le coltivazioni campane e per l'economia della regione. Ed è questo che la inorgoglisce maggiormente. «La ricerca in Italia ha molti problemi - commenta - ma, con molti sacrifici, possiamo provare a valorizzare il territorio cercando di non perdere cervelli. Restare in Italia significa anche evitare che altri Paesi guadagnino su tanti giovani che rappresentano una risorsa importante per il nostro Paese. Voglio tentare di restare qui, per valorizzare i nostri talenti; potrei andare negli States con una linea di ricerca convenzionata ma non ho intenzione di trasferirmi».

Una posizione coraggiosa e all'opposto di quella di Dario Migliore che, messa da parte una triennale in ingegneria, è partito alla volta di Lodz in Polonia, dove agli stranieri in alcuni casi riconoscono anche delle somme per far fronte alle spese di trasloco. Qui Dario è entrato a far parte dell'italian team di Fujitsu Technology con cui gestisce la piattaforma IT dei negozi di una grande azienda di abbigliamento dell'Italia e dell'Inghilterra attiva anche in Sud Africa e Nuova Zelanda. «È un posto multiculturale, in cui conosci persone di tutti i tipi - racconta - Nel mio team ci sono giovani del Camerun che parlano anche francese e inglese». Come primo stipendio, Dario ha guadagnato 650 euro, che in quel contesto consente una vita serena. «Sono laureato in ingegneria aerospaziale e avrei sperato di fare altro, ma con la mia laurea se non hai il massimo dei voti non sei nessuno. Qui si vive quella felicità che non esiste più in Italia: la gente si sposa a 25 anni, lavora, è serena. Io abito nel centro della città, la mattina vado al lavoro con i trasporti pubblici che sono efficientissimi e se prendo una birra la pago 2 euro, non 5 euro come a Napoli. Da noi a quarant'anni ancora non abbiamo la forza economica di mettere su famiglia, qui l'economia è in ascesa, ci sono anche quarantenni che hanno perso il lavoro in Italia. Da noi c'è solo lo sfruttamento, qui c'è la vita, c'è il lavoro, ci sono i progetti. Non intendo tornare sui miei passi».

Era ben deciso a tornare, invece, Raffaele La Montagna che, come dice scherzando, «ha fregato tutti al contrario». Appena laureato, ricorda, «ho avuto la fortuna di poter fare il dottorato negli Usa. Così, sono stato lì quattro anni e, se ben guardiamo, sono stato io ad approfittare del sistema di formazione americana per poi tornare nel mio Paese e far fruttare qui le conoscenze che avevo acquisito fuori». Dopo una lunga esperienza in un centro di ricerca nazionale, Raffaele, originario di Marigliano, ormai 35enne e padre di un bimbo, è stato assunto da una società farmaceutica dove ha trovato una collocazione che lo gratifica. «Il mondo della ricerca in Italia - spiega - non è meritocratico e questo alla lunga pesa. E non sono mancate le offerte indecenti o i bandi in cui ti dicevano che eri troppo qualificato per quella posizione. Senza quel background di formazione americana, però, non avrei potuto trovare un lavoro come quello che ho appena accettato».

C'è poi il paradosso di Mario Sceral che, dopo aver vinto un dottorato di ricerca alla Cranfield University bandito dal ministero della Difesa inglese, s'è ritrovato seduto ai tavoli in rappresentanza del governo inglese: «Sono stato anche a Roma - racconta - ma nella delegazione inglese. Qui sto lavorando a un modello che aiuterà a migliorare la gestione delle informazioni tra i loro uffici acquisti e i loro fornitori. È molto interessante e non devo sostituirmi al professore nella correzione dei compiti, come spesso i dottorandi fanno in Italia: posso dedicarmi alla ricerca con un forte sostegno da parte dell'università e un buon collegamento tra università e aziende che consente ai ragazzi di essere a stretto contatto già dal momento della specialistica. Sto bene, si, ma vorrei tornare a casa perché sono legato alle mie radici, eppure non riesco a trovare un'opportunità valida».

 

Non sono solo i giovani professionisti a puntare sui Paesi stranieri. Sempre più spesso, infatti, emigrano anche le aziende, meglio ancora se guidate da giovani imprenditori. È il caso di Simone Improta, che con i suoi 34 anni è probabilmente uno degli amministratori delegati più giovani del Mezzogiorno e che per la sua Medicina Futura ha puntato sugli Emirati Arabi. «È iniziato tutto due anni fa, quasi per scommessa - spiega Improta che si divide ormai tra Napoli e Dubai - ma nel giro di pochi mesi ci siamo resi conto che avevamo visto giusto: oggi la nostra sede araba cammina da sola e stiamo per aprirne anche un'altra ad Abu Dhabi». Un caso davvero particolare quello di Improta che, conoscendo tanti medici suoi coetanei, ha pensato allora di portare negli Emirati i più brillanti tra i giovani medici nostrani. Loro, manco a dirlo, non se lo sono fatto dire due volte e hanno lasciato seduta stante le rispettive attività per correre a prendere il primo aereo. «Conoscevamo bene il disagio che vivono molti medici altamente specializzati - racconta Improta - e, dopo aver fatto una selezione sulla base della nostra rete, che include quasi mille medici, è bastato fare una semplice telefonata a quelli che ritenevamo potessero essere i migliori. La risposta è stata non solo positiva ma soprattutto immediata». Quello della sanità degli Emirati, infatti, rappresenta un altro nuovo Eden per i medici ad alta specializzazione, che le università italiane sfornano in numero anche cospicuo ma che non riescono a trovare collocazioni stabili oltre il pubblico, con stipendi da 1.500 euro al mese che sono davvero poca cosa rispetto a quelli da 10.000 euro ai quali possono aspirare a Dubai. «E non si dica che a Dubai la situazione è migliore - avverte Improta - La verità è che non c'è proprio paragone: il nostro obiettivo è esportare il modello di sanità italiano che è riconosciuto in tutto il mondo come uno dei migliori, perché è vero che i nostri specializzati sono bravissimi ma il problema è la gestione del pubblico che, forse, dovrebbe essere affidata a un management più produttivo».
Simbolo del lusso e della bella vita, insomma, Dubai sta diventando la nuova Mecca non solo dei vip e dei super paperoni, ma anche dei cervelli in fuga. E questo perché, se fino a dieci anni fa la sanità quasi non esisteva, oggi, a fronte di un incremento della popolazione del 15% l'anno, gli sceicchi stanno investendo moltissimo per garantire alla loro popolazione un servizio in grado di far fronte a una domanda che non solo va aumentando a vista d'occhio ma che impone anche standard qualitativi all'altezza delle aspettative di chi abita i celebri grattacieli degli Emirati Arabi Uniti. Un nuovo concorrente più che appetibile, insomma, per il mercato del lavoro italiano e, spesso, un ottimo trampolino di lancio per poter poi raggiungere di lì, attraverso una nuova rete di conoscenze di livello, ulteriori traguardi internazionali.
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