Il delitto dell'agente Petri: dal blitz sul treno iniziò la fine delle nuove Br

Il delitto dell'agente Petri: dal blitz sul treno iniziò la fine delle nuove Br
Il delitto dell'agente Petri: dal blitz sul treno iniziò la fine delle nuove Br
di Claudia Guasco
Giovedì 2 Marzo 2023, 08:03 - Ultimo agg. 15:23
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MILANO Domenica 2 marzo 2003, alle sette di mattina, tre agenti del posto di polizia ferroviaria di Terontola, provincia di Arezzo, cominciano il loro turno. Piove, i viaggiatori sono pochi. Il sovrintendente Emanuele Petri, insieme ai colleghi Bruno Fortunato e Giovanni Di Fronzo, sale sul treno regionale 2304 diretto a Firenze per effettuare i consueti controlli e dopo la stazione di Camucia-Cortona chiede i documenti a un uomo e a una donna seduti da soli in uno scompartimento.

LA SPARATORIA
L'ha fatto mille volte, ma non per questo Petri è meno attento. Infatti capisce subito che c'è qualcosa che non va e telefona al compartimento Polfer di Firenze per effettuare un riscontro al terminale. I due viaggiatori capiscono che i numeri in sequenza dei documenti falsi non avrebbero retto i controlli, puntano la pistola alla gola di Petri e lo uccidono. Di Fronzo, ferito, riesce a fare fuoco contro l'uomo, Fortunato disarma la donna. Basta qualche ora per capire chi sono: Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce, terroristi, latitanti, a capo della direzione strategica delle Nuove Br. Sono passati vent'anni da quel giorno e senza lo scrupolo di Petri, il suo sacrificio, e il coraggio dei colleghi la stagione di sangue degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D'Antona e Marco Biagi sarebbe ancora un buco nero. La Lioce, al momento del suo arresto, ha sfidato le istituzioni con la frase di rito di chi vent'anni prima aderiva alle bande armate: «Mi dichiaro prigioniera politica». Da allora è nel carcere dell'Aquila in regime di 41 bis, non lancia più proclami ma viene considerata tra gli arruolati permanenti del terrorismo. È con Lioce, Galesi (morto dopo la sparatoria nell'ospedale di Arezzo) e Roberto Morandi che le Brigate Rosse, ormai fuori tempo, rinascono e si attualizzano alla fine degli anni 90: gli obiettivi da colpire diventano i tecnici di governo, chi lavora alle riforme, l'ambito nel quale fare breccia non è più solo operaio, si allarga ai servizi e al terziario avanzato. Cambia il mondo, ma non l'organizzazione paramilitare dei terroristi, la ferocia con cui colpiscono, la vita in clandestinità. Quella che conducevano da tempo Nadia Desdemona Lioce, che oggi ha 62 anni, e Mario Galesi, militanti inseguiti da un'ordinanza di custodia cautelare per banda armata.

Dopo la sparatoria sul treno gli investigatori entrano in possesso di materiale prezioso: il computer portatile che i due terroristi avevano con loro, contenente parte dell'archivio della banda armata, uno zaino con floppy disk, agende, appunti. E un biglietto da visita. È quello di un negozio di informatica al quale la Lioce aveva lasciato il suo numero di telefono, grazie al quale sono stati ricostruiti i contatti con gli altri brigatisti. Informazioni che permettono di risalire anche a un covo a Roma, in via Montecuccoli, dove oltre a carichi di esplosivi erano occultati documenti decisivi, tra i quali uno scritto che rivendicava l'esecuzione di Marco Biagi. Per questa omicidio a dicembre 2007 Nadia Desdemona Lioce è stata condannata all'ergastolo con altri quattro terroristi e un altro verdetto di carcere a vita nei suoi confronti è stato pronunciato a giugno 2007 per l'assassinio di Massimo D'Antona.

IL RICORDO
Oggi, a Castiglion Fiorentino, verrà ricordato Emanuele Petri con la deposizione di una corona d'alloro in memoria. Ci saranno anche la moglie Alma e il figlio Lorenzo, che vent'anni fa aveva solo diciott'anni. La polizia ha dedicato a Petri un libro che racconta la sua storia, ne ripercorre la vita e lo ricorda per sempre con alcune fotografie. Tra chi non lo dimenticherà mai c'è l'ispettore di polizia Ugo Bonelli. «Lele era considerato da tutti una sicurezza - racconta - Alto, robusto e deciso. Con la possanza dei suoi 110 chili incuteva timore ai delinquenti, ma allo stesso tempo dava tranquillità a noi colleghi che lo avevamo avuto accanto in mille occasioni e interventi, a volte anche difficili. Era un punto di riferimento sicuro e affidabile. L'immagine di Emanuele che porterò sempre con me è di lui in uniforme operativa impeccabilmente indossata con cinturone, occhiali da sole e sigaretta in bocca. Lo stesso Lele che incontravo sul treno quando andavo all'Università a Firenze, che avanzava a fatica nei corridoi del vagone per la sua imponenza o passava di traverso le porte interne perché non c'entrava con le sue spalle troppo larghe».

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