Marta Cartabia, presidente uscente della Corte Costituzionale: «Diversità e pluralismo, la ricchezza del diritto»

Marta Cartabia
Marta Cartabia
di Franca Giansoldati
Sabato 12 Settembre 2020, 17:44 - Ultimo agg. 13 Settembre, 18:03
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Gli scatoloni sono ormai pronti. Destinazione Milano. Marta Cartabia lascia il Palazzo della Consulta, dove è entrata trentenne, come assistente di studio, nel 1993, e poi è ritornata, nel 2011, a 48 anni, come giudice costituzionale nominata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Negli ultimi nove mesi, i suoi colleghi l’hanno scelta per guidare la Corte, prima presidente donna nella storia della Repubblica. “Un’assunzione di responsabilità enorme, non una medaglia al valore”, dice in questa intervista al Messaggero, in cui fa il bilancio della sua lunga esperienza, prima di tornare all’insegnamento universitario. «Non è un ritirarsi in una dimensione privata – spiega - perché considero la cura e l’istruzione delle giovani generazioni il primo dei compiti pubblici». E cita Mario Draghi: “Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione”. Ai giovani e al futuro Marta Cartabia guarda con incrollabile fiducia, richiamando però tutte le istituzioni a un impegno speciale: «Sostenere le energie positive emerse durante il lockdown in una prospettiva di ricostruzione a lungo termine».

Presidente, in questi nove anni la Corte è cambiata?
«La Corte è una solida istituzione di garanzia, ben radicata nel sistema costituzionale, il cui tratto distintivo, soprattutto negli ultimi anni, è il pluralismo. Le istituzioni sono pensate per durare nel tempo; sono sempre le stesse, ma la loro sensibilità cambia a seconda di chi ne fa parte. Quando arrivai, il collegio della Corte era più omogeneo e in quel contesto io ero un po’ un’anomalia; a tratti mi sentivo persino un po’ sola come unica donna nel collegio. Diversa per genere, generazione e geografia dagli altri giudici. Oggi la Corte ha una composizione diversificata e reputo che questo sia una ricchezza. Tanto per cominciare, le donne sono tre e l’ultima nomina del Presidente della Repubblica ha mantenuto questo numero. La Corte è più varia per genere, per età, per provenienza geografica e per estrazione culturale. Questo tratto è decisivo per un organo come la Corte costituzionale perché è solo dal pluralismo interno che può nascere una vera neutralità nel giudicare».


Qual è la sua idea di neutralità e, quindi, di imparzialità e indipendenza?
«C’è chi pensa che la neutralità si ottenga per sottrazione, spogliandosi della propria storia, dei propri valori e orientamenti culturali. Nella vita della Corte, la neutralità si ottiene invece per addizione e nel confronto di culture e provenienze diverse. E qui di culture e provenienze ce ne sono tante. Alcuni giudici, ad esempio, hanno avuto un passato politico e parlamentare. Può sembrare una contraddizione: chi fa le leggi poi ne giudica la legittimità costituzionale… Ebbene, tutto questo non è un problema, ma una ricchezza. Dentro la Corte, ma anche fuori, ognuno vede il mondo attraverso un punto di vista: ogni punto di vista illumina l’uno o l’altro degli aspetti dei problemi da decidere, gettando un fascio di luce. È nell’intrecciarsi dei vari fasci di luce che si delinea l’immagine nella sua complessità. Nessuno può conoscere da solo, occorre incrociare le prospettive. Come direbbe Hannah Arendt: «Nell’ascolto, faccio esperienza del mondo, ovvero di come il mondo appaia da altri punti di vista. In ogni doxa si manifesta il mondo». Poi, naturalmente, ci deve essere un punto di sintesi. Dopo avere ascoltato tutti e aver lavorato nel dialogo e con l’arte della persuasione, la Corte cerca di offrire la risposta più convincente e adeguata».

È qui che entra in gioco il ruolo del presidente?
«Il ruolo del presidente è saper cogliere il contributo di tutti e metterlo a frutto».

È stato facile per lei?
«No. È faticosissimo, ma entusiasmante. È più semplice affermare un punto di vista unilaterale che sintetizzare ciò che ha valore nel contributo degli altri, specie quando le visioni sembrano inconciliabili. Non si tratta di trovare una media matematica o un minimo comune denominatore. Il Presidente è un po’ come un direttore d’orchestra. Tiene la partitura, segna il tempo, il tono. Valorizza le singole voci, assicurando la coralità. Il mio obiettivo è stato mantenere l’armonia nel collegio».

C’è riuscita?
«Lo lascerei dire agli altri. Ho cercato di valorizzare i contributi di tutti. Come dice San Paolo: vagliare tutto e tenere ciò che vale».

Da cattolica, come ha conciliato la sua visione con il punto di vista laico degli altri suoi colleghi?
«Non sono certo la prima cattolica ad entrare nella Corte (sorride). Ma mi chiedo: perché essere cattolico viene percepito da alcuni come un problema? Credo che ciò sia dovuto al fatto che spesso la fede è percepita come un sistema di regole e leggi che competono con quelle dello Stato. Ma questo non è il cristianesimo che ho conosciuto. Il cristianesimo che conosco è lo sguardo sulla persona raccontato nel Vangelo quando Cristo incontra la prostituta, quando incontra Zaccheo, quando incontra la Samaritana o quando incontra il buon ladrone sulla Croce. È uno sguardo che comprende e valorizza appieno ogni aspetto della loro umanità, così che nel rapporto con quell’Uomo tutti si trovano a dare il meglio di sé. È uno sguardo che permette a tutti, laici e credenti, di trovare un terreno di incontro. Tracce di questo sguardo sulla persona si leggono in filigrana anche nei principi costituzionali».

Che cosa significa per un cristiano svolgere una funziona pubblica in uno Stato laico?
«Il nostro è uno Stato laico dove la laicità – come ha detto la Corte costituzionale – "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale". Uno Stato laico non impone l’ateismo come unico punto di vista ma dà spazio a tutti; ha a cuore la libertà religiosa di tutti: la libertà di credere e anche di non credere».


Che cosa ha significato per Marta Cartabia, teorica del diritto, diventare giudice?
«Diventare giudice per un giurista significa imparare a guardare al diritto a partire dai problemi che si creano nella vita delle persone e nella vita sociale. Un caso giudiziario, in fondo, è un enigma da risolvere. Questa abitudine a guardare ai problemi e a coglierne la vera natura reputo sia uno degli aspetti più interessanti di questi nove anni alla Corte, perché come dice Chesterton: “Il guaio non è non vedere le risposte, ma non cogliere l’enigma”».

Ma come si fa a sciogliere l’enigma quando lo si è individuato?
«Normalmente con gli strumenti dell’ascolto e del ragionamento giuridico si riesce ad arrivare a soluzioni convincenti per tutti. A volte, però, gli enigmi giudiziari sembrano dilemmi insanabili. Un modello di giudice, per me, è Guido Calabresi, americano, ma di origine italiana, che ha scritto un libricino preziosissimo intitolato “Il mestiere del giudice”. Fu costretto a fuggire dall’Italia perché ebreo, ma come giudice americano si trovò a lavorare in un ordinamento che prevede la pena di morte. Scrive: “Ciò ripugna alla mia coscienza, ma cosa posso fare? Scappare? Sottrarmi?” E aggiunge che ricusare questi casi sarebbe la scelta peggiore perché “se tutti i giudici contrari alla pena di morte ricusassero quei casi, non resterebbero che i giudici favorevoli alla pena di morte, che finirebbero per applicarla senza pensarci troppo e senza troppi scrupoli”. Concludeva: “C’è una sola cosa da fare: svegliarsi nel cuore della notte, anche per molto tempo”, per cercare una soluzione che la coscienza reputa accettabile, senza tradire la funzione di giudice in uno Stato che ha anche leggi che posso non condividere».


Anche a lei è capitato di non dormire la notte?
«Quando i casi sono difficili sì, sono un tarlo che ti porti dietro; ci pensi la notte, quando cammini, viaggi… Ma negli anni ho imparato che quando c’è un dilemma in cui si contrappongono due soluzioni inconciliabili, c’è sempre anche una terza strada. Non si tratta del compromesso nel senso deteriore del termine. La risposta adeguata non è mai l’esito di un mercanteggiamento o di una negoziazione commerciale. È piuttosto il frutto di una creatività che nasce dall’ascolto della pluralità delle voci e che ti spinge a cercare una soluzione che tiene insieme le esigenze di tutti. Questo può restituire il sonno al giudice».

Quest’esperienza l’ha cambiata?
«Essere giudice ti fa vedere le questioni in tutta la complessità delle situazioni reali e la realtà è sempre imprevedibile. Da qui vedi il diritto nel momento del suo impatto sulla vita delle persone. Essere giudice ti chiede di misurarti continuamente con ciò che non è giusto, dalla piccola e minuscola ingiustizia quotidiana fino ai drammatici risvolti di una legge che genera effetti inaccettabili. Svolgere la funzione giudicante richiede una disponibilità all’inquietudine, perché stare davanti alle ingiustizie mette inquietudine. Per questo non possiamo dimenticare le parole di Piero Calamandrei: “Vogliamo dei giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”».

Lei è stata la prima donna presidente della Corte costituzionale ma questo primato forse ha finito per mettere in ombra la sua storia professionale, che tra l’altro l’ha portata giovanissima ad essere nominata giudice costituzionale dal presidente Napolitano. Come andò?
«Non me l’aspettavo. Ero appena tornata da un lungo soggiorno all’estero ed ero molto proiettata nella mia vita accademica sul versante internazionale. A un certo punto suona il telefono: era il Segretario generale della Presidenza della Repubblica. Devo essere stata persino un po’ goffa nel rispondere. Quando, alcuni giorni dopo, fui ricevuta dal presidente Napolitano, notai che sulla sua scrivania aveva una montagna di miei scritti. Mi disse tre cose: voleva una donna alla Corte; un profilo aperto all’Europa; una persona con una storia diversa dalla sua, perché credeva nel pluralismo».

E la sua famiglia come la prese?
«Dei miei tre figli, all’epoca il piccolo era alle elementari, l’altro faceva la prima media e mia figlia era all’inizio del liceo. L’hanno presa complessivamente bene, soprattutto perché mio marito non ha avuto mai esitazioni. È stato sempre il mio primo fan, un vero e proprio sostenitore in ogni passaggio, altrimenti non sarebbe stato possibile mantenere unita la famiglia con un impegno pubblico di questa portata. Peraltro, un grande aiuto me lo ha sempre dato mia madre, a cui debbo una riconoscenza infinita. Certamente i miei figli erano già abituati a una vita familiare connotata da ampi spazi di autonomia per tutti, ma anche sostenuta da parte di tante persone, anche esterne al nostro nucleo familiare. C’è sempre un gran traffico in casa nostra. Insomma, c’è sempre stata una rete a sostenermi. E poi chissà se questa mamma che si è tenuta un po’ a distanza dai figli non ha contribuito a che emergessero le loro risorse: forse non è un caso se oggi tutti i miei figli sanno cucinare benissimo, molto meglio di me (ride)».

Le è mai pesato, all’inizio, essere l’unica donna del collegio?
«In principio, mi sentivo un po’ una aliena. Ma quasi subito ho percepito la stima di alcuni componenti autorevoli del collegio che mi ha dato una grande sicurezza. Le racconto un piccolo episodio significativo: dovevamo decidere se alle madri adottive spettasse l’intero periodo di maternità obbligatoria o soltanto i tre mesi post partum. Si stava formando un orientamento favorevole alla seconda ipotesi; io feci osservare che una madre adottiva, pur non avendo bisogno del canonico periodo di riposo legato alla gravidanza e al parto, ha tuttavia necessità di un tempo più lungo per accogliere un figlio con una storia di abbandono e con una ferita da sanare. Ebbene, mi colpì la prontezza con cui 14 giudici uomini condivisero questo punto di vista».

Lei ha dedicato il suo ultimo podcast al ruolo della Corte nella costruzione dell’Europa…
«Sì, perché la Corte, dopo un lungo cammino, in questi ultimi anni è diventata protagonista, con una voce importante, nella costruzione dell’ordinamento europeo, mentre per lungo tempo ne era rimasta ai margini».

Oggi la Corte ha implementato anche la comunicazione. Perché?
«La comunicazione è parte fondamentale dei compiti della Corte. Il suo compito è custodire i principi costituzionali e il primo modo per farlo è coltivare una cultura costituzionale, raccontando il suo impatto nella vita delle persone. I valori costituzionali debbono mantenersi vivi nel tessuto sociale, se no diventano lettera morta, diventano cenere. Magari ceneri da adorare, come direbbe Papa Francesco, ma incapaci di incidere nella vita sociale».

Nonostante il lockdown, e la sua malattia, lei lascia un’impronta di modernità senza precedenti: udienze da remoto, App, processo telematico, podcast, firma digitale… Avete fatto un salto quantico…
«Il Covid ha richiesto a tutti di rinnovarsi per continuare a essere se stessi. Anche la Corte, per continuare a svolgere i suoi compiti normali, ha dovuto mettere in atto un imponente processo di innovazione. Prima si lavorava solo su carta e in presenza. Col Covid tutto è cambiato: per esempio, gli avvocati – che vengono da ogni parte del paese – non potevano più viaggiare per venire a depositare gli atti nella cancelleria della Corte; abbiamo dovuto attivare uno scambio elettronico di documenti; nel frattempo abbiamo impostato il processo telematico costituzionale che è a un buon punto di sviluppo e si chiamerà e-Cost. L’attività della Corte non si è mai fermata, neanche a Ferragosto. Abbiamo fatto udienze e camere di consiglio da remoto e alla fine non c’è stata alcuna flessione nell’attività della Corte: basta vedere il numero delle decisioni».

E dopo il Covid come vede il futuro di questo Paese?
«Pur vivendo un dramma, sono emersi elementi di grande positività. C’è stata una spontanea solidarietà tra le persone, creatività, intraprendenza e responsabilità in tante attività economiche e sociali. Io sono fiduciosa e auspico che le istituzioni sappiano sostenere le energie positive che si sono sprigionate. Occorre realismo e lungimiranza, una prospettiva di ricostruzione a lungo termine, un po’ come quella che permise la ripresa dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale».

 
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