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Nick Sloane, il capo delle operazioni del recupero della Costa Concordia: «Mi prendevano per matto ma ho salvato quella nave»

Il capo delle operazioni di recupero: «Non era un relitto ma un cimitero»

Nick Sloane, il capo delle operazioni del recupero della Costa Concordia: «Mi prendevano per matto ma ho salvato quella nave»
Nick Sloane, il capo delle operazioni del recupero della Costa Concordia: «Mi prendevano per matto ma ho salvato quella nave»
di Cristiana Mangani
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 9 Gennaio 2022, 00:04 - Ultimo agg. : 11 Gennaio, 16:59
4 Minuti di Lettura

Nei giorni del trasferimento della nave, Nick Sloane, l’uomo che ha guidato il team che ha rimosso il gigante del mare davanti all’isola del Giglio, dormiva un paio di ore a notte. Spostare la Concordia dal luogo dell’impatto era per tutti un’operazione folle. Lui ci è riuscito, e «quell’impresa - dice - gli ha cambiato la vita».

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Sono passati dieci anni dal naufragio della Costa Concordia, qual è il ricordo più vivo che ha?
«Le dimensioni incredibili della nave e la prima volta che sono salito a bordo».

Ha una grande esperienza nel settore del parbuckling, perché questa nave ha inciso così tanto nella sua vita?
«Sicuramente è stato il culmine di 28 anni di attività nell’industria del salvataggio, ho conosciuto veramente le mie capacità. Ma è stata soprattutto la portata dell’operazione. Il fatto che oltre 4.000 persone siano sbarcate su questa piccola isola in un venerdì sera di metà inverno, è di per sé una storia incredibile. Avevamo 26 nazionalità nel nostro team di oltre 500 persone, la pressione dell’isola del Giglio, la pressione delle autorità italiane, la pressione dell’armatore, la pressione delle assicurazioni e alla fine, anche la pressione delle condizioni climatiche. Una situazione inimmaginabile».

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Nei giorni della tragedia hai mai pensato di perdere la sfida?
«Sì, due volte. Le prime grandi tempeste di Scirocco del novembre 2012 hanno fatto crollare la nave di 2 metri in profondità. Sono rimasto sveglio per notti intere a guardare fuori dalla finestra il relitto in preda alla tempesta. Ascoltavo tutti gli allarmi che suonavano e indicavano che si stava muovendo, che stava crollando. Non pensavo che ce l’avremmo fatta». 

E la seconda volta?
«La notte prima dell’operazione di parbuckling, il 15 settembre 2013. Nessuno credeva che avrebbe funzionato: ingegneri, altre società di salvataggio e la società di ingegneria di consulenza per i proprietari. Ho pensato che forse avevano ragione loro e che noi eravamo “i pazzi”. Poi, mi sono alzato, ho ripassato tutti i nostri calcoli, ho aggiunto gli elementi a nostro favore, e ho deciso che non avevamo scelta. Bisognava comunque provare».

Quanto è durata l’operazione?
«Diciannove lunghissime ore, ma alle 04 del mattino del 17 settembre, avevamo raggiunto i nostri risultati. È stato sicuramente un momento surreale».

Il comandante della nave Francesco Schettino è stato condannato e sta scontando la pena come detenuto modello, secondo lei quali errori ha commesso?
«Non sono mai stato coinvolto in quello che è successo, mi sono concentrato solo su ciò che dovevamo fare. Ancora oggi non ho letto il rapporto ufficiale su ciò che è realmente accaduto».

 

È più tornato sull’isola del Giglio?
«Amo l’isola. Sono tornato due volte, e ci tornerò ancora sicuramente: la storia affascinante, le acque bellissime per tuffarsi, pescare o semplicemente nuotare, le persone che sono meravigliose. Persone così sincere che hanno preso a cuore la tragedia della Concordia. E poi, anche il cibo è ottimo, e il vino locale: uva ansonica, “Senti, oh”, tutto molto speciale».

Quanto è cambiata la sua vita da quel giorno?
«Molto. Sono stato in molte operazioni di salvataggio di 3, 4 o anche 7 mesi che sono state impegnative, ma i 30 mesi della Costa Concordia sono stati un periodo pazzesco, con stress continuo e sfide difficili da affrontare e superare. Sono stato poco con mia moglie e i miei tre figli, ho dovuto recuperare due anni e mezzo di vita una volta tornato a casa nell’agosto del 2014».

Dover intervenire in un luogo dove c’erano ancora cadaveri da recuperare quanto ha pesato su lei stesso e sulla sua squadra?
«Quando sono salito per la prima volta sulla nave nel maggio 2012, è stato molto inquietante, perché si sapeva che lì erano morte 32 persone e che due erano scomparse da qualche parte a bordo. Dicevo continuamente ai membri del team che si stava lavorando non su un relitto ma su un cimitero, e che era molto importante riportare la nave in piedi tutta intera, in modo che le famiglie potessero riavere i corpi dei loro cari».

A distanza di dieci anni pensa mai a quei giorni?
«Sì, regolarmente, e quando sento o incontro alcuni degli amici e dei colleghi che hanno partecipato al progetto con noi, mi torna in mente la straordinaria bellezza di quell’isola: le persone, i luoghi. Wonderful».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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