Un attacco hacker che ha paralizzato il sistema informatico, con tanto di riscatto in cambio dello sblocco. Una truffa di quelle che spesso avvengono ai danni delle aziende, che a volte cedono all'estorsione pagando migliaia di euro pur di risolvere il problema. Quello che è successo ad un'impresa del veneziano, però, è molto particolare: dopo aver pagato il 'riscatto' ai ricattatori, il titolare ha infatti assoldato un'agenzia di investigazioni per capire dov'era la falla e come poteva essere successo.
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La scoperta dei consulenti, racconta oggi il Corriere del Veneto, ha portato ad un dipendente e alle sue abitudini: al computer, anziché lavorare, l'uomo navigava su siti porno e chat di incontri. Pagine 'non sicure', attraverso cui gli hacker si sarebbero intrufolati nel sistema per poi procedere con il ricatto a suon di migliaia di euro. L'azienda lo ha licenziato per giusta causa, il dipendente ha fatto ricorso ma lo ha perso: e nella sentenza, il giudice del tribunale di Venezia dà ragione alla ditta. Il licenziamento «appare proporzionato», scrive il magistrato, «considerato che si tratta di attività ripetute e prolungate».
L'attacco informatico, spiega il Corriere, avvenne nel luglio 2019: a subirlo, un 'agenzia marittima che propone servizi per spedizioni, supporto logistico e operazioni doganali. Attraverso un virus ramsomware, gli hacker hanno bloccato il sistema informatico e chiesto un riscatto: ottenuti i soldi, hanno poi rimosso il virus.
Nella sentenza, conclude il Corriere del Veneto, si legge anche un altro particolare interessante: il dipendente, in orario di lavoro, usava il computer «per leggere la posta personale e per interessi privati, tra cui il frequente accesso a vari siti pornografici». E ancora viaggi, ricerche di lavoro, acquisti e noleggi online, e chat di incontri per adulti. Ma soprattutto ciò accadeva anche in giornate in cui non dava la sua disponibilità a fare ore di straordinario: in altre parole, durante la sua giornata in azienda aveva tempo per la chat, per i porno e per le faccende personali, ma non per il lavoro. Lui si è difeso sostenendo che il licenziamento fosse dovuto alla sua attività sindacale, che lo aveva portato a scontrarsi con i superiori: quanto ai porno, in aula ha detto che il computer poteva essere stato usato da qualche collega in sua assenza. Il tribunale, però, non gli ha creduto.