Eluana Englaro, il papà 12 anni dopo: «Ho combattuto nel deserto, ma grazie a lei c'è la legge sul biotestamento»

Eluana Englaro, il papà 12 anni dopo: «Ho combattuto nel deserto, ma grazie a lei c'è la legge sul biotestamento»
Eluana Englaro, il papà 12 anni dopo: «Ho combattuto nel deserto, ma grazie a lei c'è la legge sul biotestamento»
di Claudia Guasco
Mercoledì 10 Febbraio 2021, 10:40 - Ultimo agg. 15:55
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Era il 9 febbraio 2009 ed Eluana Englaro, 38 anni di cui 17 vissuti in stato vegetativo a causa di un incidente in auto, cessava di respirare. È morta a “La Quiete” di Udine dove fu interrotta la nutrizione artificiale, mentre il Senato si riuniva d’urgenza per discutere un disegno di legge con cui tentava di bloccare la sentenza della Corte d’Appello che autorizzava lo stop all’idratazione e all’alimentazione forzata che tenevano in vita Eluana. «Ma quella non era vita, e comunque non era la vita che voleva lei», racconta oggi Beppino Englaro, 79 anni, una vita dedicata alla battaglia per il diritto a morire con dignità. È grazie a lui se oggi c’è la legge 219/17 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, che ogni paziente può decidere di rifiutare. «Ma io - afferma - allora ho trovato il deserto».

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La sua battaglia, ingegner Englaro, è durata quindici anni e nove mesi.

«Sin dal mio primo incontro con il responsabile della rianimazione dell’ospedale di Lecco ho rivendicato la scelta che avrebbe fatto Eluana, cioè quella dell’autodeterminazione.

Ora c’è una legge ma nel 1992, quando è avvenuto l’incidente, era un muro invalicabile. Eppure la nostra Costituzione non permette che le persone nelle condizioni di mia figlia, incapaci di intendere e di volere, siano discriminate, tuttavia né i medici né la società erano disposti ad accettare la scelta di una morte dignitosa. Eluana aveva questo diritto, costituzionale ed etico, sulla questione aveva le idee chiarissime».

Il tema, purtroppo, l’aveva toccata da vicino.

«Il suo amico Alessandro ha avuto un incidente in moto, è finito in coma e la sua situazione era senza speranza. Eluana è andata a trovarlo in ospedale e quando lo ha visto così, imbrigliato nella rianimazione, e ha capito fino a dove il trattamento poteva spingersi, era disperata. A noi e alla amiche ha confidato che secondo lei sarebbe stato meglio se fosse morto, perché quella non poteva considerarsi una vita. Aveva reagito al dramma a modo suo, leggendo “Una storia semplice”, di Leonardo Sciascia, che scrive: “A un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”. Eluana era un purosangue della libertà».

Lei e la mamma eravate al corrente della sue scelta.

«Il famiglia, prima dell’incidente di Eluana, abbiamo più volte affrontato il problema in modo approfondito. Abbiamo parlato di vita, di morte, di dignità e libertà. Aveva una posizione chiarissima e noi tutti, come famiglia, un’idea univoca».

 

Nessuno però vi ascoltava.

«Per la società è stato uno shock, nessuno si aspettava una persona che rifiutasse un’offerta terapeutica. Benché io rivendicassi una libertà e un diritto costituzionale, prima di arrivare alla Cassazione ci sono voluti quasi sedici anni. Nel 1999 il Tribunale di Lecco respinge la sua richiesta di interrompere la nutrizione sostenendo che l’alimentazione forzata non può essere considerata “una cura medica” e dunque non si può invocare l’articolo 32 della Costituzione per cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Nel 2003 Tribunale di Lecco e Corte d’Appello di Milano respingono altre richieste analoghe. Nel 2007 la Cassazione annulla il provvedimento della Corte d’Appello, nel 2008 Camera e Senato sollevano il conflitto di attribuzione ma la Costituzionale dà ragione agli ermellini. Nel 2010 è stata archiviata l’inchiesta per omicidio a carico mio e di altre 13 persone».

Alla fine ce l’ha fatta.

«La sentenza della Cassazione ha stabilito che era legittimo chiedere l’interruzione del trattamento. Bisognava considerare i convincimenti filosofici ed etici di Eluana, e naturalmente le sue condizioni cliniche e neurologiche che non sono mai state in discussione. Una perizia ha confermato che i danni conseguenti all’incidente del 1992 erano “anatomicamente irreversibili”».

Qual era la risposta del medico alle vostre richieste?

«Ci diceva: “Io non posso non curare”. Ma il rifiuto delle terapie mediche non può essere scambiato per eutanasia. La vicenda di Eluana è di una semplicità disarmante, mia figlia andava rispettata per i suoi convincimenti».

Ora, grazie a lei, c’è la legge 219. Ma nonostante le battaglie di Piergiorgio Welby, Dj Fabo e Davide Trentini il percorso legislativo sul suicidio assistito è inchiodato in parlamento.

«I cambiamenti culturali hanno i loro tempi, ma la politica a questo punto non può più rifiutarsi di rispondere. La legge arriverà, nel frattempo grazie a Eluana chi non vuole essere intrappolato nella rianimazione può essere accompagnato verso la morte».

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