Giovanni Maria Flick (ex presidente Corte Costituzionale): «Non si indaga più sui fatti, così falliscono i processi»

Giovanni Maria Flick (ex presidente Corte Costituzionale): «Non si indaga più sui fatti così falliscono i processi»
Giovanni Maria Flick (ex presidente Corte Costituzionale): «Non si indaga più sui fatti così falliscono i processi»
di Valentina Errante
Lunedì 22 Marzo 2021, 00:11 - Ultimo agg. 11:59
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L’idea di una riforma che prevedesse anche le “pagelle” per i magistrati, Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte costituzionale, l’aveva avuta 25 anni fa, da ministro della Giustizia del primo governo Prodi, e aveva scelto come direttori generali di via Arenula alcuni dei magistrati più esperti ai quali adesso si è rivolta anche la Guardasigilli Marta Cartabia. Oggi non ha cambiato idea, ma ritiene che un intervento di questo tipo debba fare parte di una ristrutturazione sostanziale del sistema giudiziario. Ovviamente partendo dai tempi dei processi.

David Ermini, vicepresidente Csm: «Toghe, carriera legata ai processi» 

Il vicepresidente del Csm, David Ermini, ipotizzava che nella valutazione di un pm possa pesare anche l’esito dei processi che istruisce. Che ne pensa?
«Penso che un sistema che valuti le competenze di un magistrato sia indispensabile. Penso addirittura siano necessarie verifiche periodiche sulla preparazione e che debba essere valutata work in progress. Le pagelle non possono, ovviamente, diventare uno strumento di controllo; invece bisogna evitare che, dopo l’ingresso in magistratura, si entri in un sistema di autoreferenzialità. Le cose cambiano e anche i magistrati devono essere all’altezza dei loro ruoli. Credo che i criteri di valutazione oggi siano insufficienti. Raramente all’interno di un ufficio si leggono relazioni che mettano in luce lacune o impreparazione dei magistrati. Bisogna trovare un’unità di misura sulle conoscenze che si manifestano anche attraverso il modo di decidere dei magistrati, senza, però, intaccarne l’indipendenza».

Però tante inchieste si concludono con assoluzioni 
«L’articolo 25 della Costituzione stabilisce che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso.

La legge chiede al magistrato di accertare quel fatto e la responsabilità della persona, quando al fatto si sostituisce il fenomeno la situazione diventa problematica. Insisto, e non da ora, ci sono tre sfere concentriche di responsabilità per un magistrato: quella penale, come tutti i cittadini, quello disciplinare e quella deontologica. Quest’ultima, fondamentale per magistrati, è affidata alla reputazione e agli organi associativi. Ed è la premessa per la responsabilità disciplinare. Certi comportamenti, etichettati come espressione di libertà, andrebbero riconsiderati, nell’ottica di un possibile attrito con la deontologia. Al magistrato si riconoscevano un ruolo e una credibilità che adesso stentano a essere riconosciuti». 

Quando è iniziato tutto questo?
«L’ho detto più volte, penso che questa tendenza sia iniziata con Tangentopoli. La magistratura ha ritenuto di dovere perseguire anche i costumi. Dopo Tangentopoli, abbiamo abbandonato il metodo di giudicare il fatto per guardare successivamente all’uomo. Oggi si giudica l’uomo, il corruttore, l’associato a delinquere, ossia il tipo di persona che è espressa da quel fatto; quest’ultimo è oggetto del trattamento penitenziario». 

La giustizia è in crisi?
La crisi del processo è legata a due questioni: in primo luogo si è allargato a dismisura l’impiego della tecnologia come strumento di indagine. La violazione dell’articolo 15 della Costituzione deve avere un carattere di eccezionalità. Strumenti come l’intercettazione, e tanto più il trojan, dovrebbero essere utilizzati solo in casi indispensabili, per proseguire indagini già aperte. Invece si fa pesca a strascico, violando così anche il principio costituzionale della libertà di espressione».

Però c’è l’obbligatorietà dell’azione penale
«L’obbligatorietà dell’azione penale è fondamento di eguaglianza ma rischia di diventare un’utopia, quindi deve esserci una legge che la regoli. Non può essere affidata alle circolari del Csm o dei capi degli uffici o alla discrezionalità dei singoli procuratori». 

Il secondo dei motivi della crisi del processo? 
«La durata dei processi viene scaricata sulla posizione di uno dei protagonisti, ossia solo sull’imputato. La ragionevole durata del processo è, invece, in carico allo Stato, che deve disporre degli strumenti per dare una risposta in tempi rapidi. Ma c’è anche una terza questione: la crisi del principio di legalità, legata alle troppe fonti normative. Alle nostre leggi, si aggiungono le decisioni della Corte dei diritti dell’Uomo, della Corte di giustizia europea e della Consulta. Oltre che l’interpretazione dei singoli giudici. Una confusione nella quale, da ultimo, abbiamo scoperto i Dpcm, che sono ordini amministrativi. Più le leggi sono numerose più c’è la possibilità di interpretarle; se poi chi deve interpretare la legge, rispetto a un fatto specifico, non ha adeguata cultura e preparazione, sorgono altri problemi. Al giudice è dato un potere molto ampio al livello di interpretazione. Ma la decisione non può essere una creazione. Il superamento della nomofiliachia (il rispetto delle precedenti decisioni), in assoluto, è un errore».

L’immagine della magistratura ha subito un duro colpo, pensa che una riforma del Csm sia indispensabile?
«Indispensabile, ma non dimezzando i tempi per cambiare metà del Consiglio, come sostiene Ermini. Bisognerebbe limitare il correntismo e invece, così, ci sarebbero doppie elezioni».

Nel pianeta Giustizia c’è anche la questione carceri.
«La pandemia ha fatto esplodere in maniera evidente una questione già aperta. In questo momento si vietano i contatti, i rapporti tra le persone avvengono da remoto, invece i detenuti hanno un obbligo di convivenza coattiva che favorisce i contagi; ma, il problema si poneva anche prima. Inoltre la sicurezza collettiva rischia di prevalere sulla funzione rieducativa e sul rispetto dei cosiddetti residui di libertà compatibili con la reclusione, attraverso l’ostacolo a concedere misure alternative ai condannati per reati gravi, come mafia e terrorismo, che non collaborino con la giustizia. Di questo si occuperà la Consulta questa settimana». 
 

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