Naufragio Crotone, quelle ultime telefonate «Amore, sto arrivando». Le lacrime dei due afghani che non trovavano i figli

La giovane tunisina al marito che la aspetta a Berlino: «Vedo la costa»

Naufragio Crotone, quelle ultime telefonate «Amore, sto arrivando». Le lacrime dei due afghani che non trovavano i figli
Naufragio Crotone, quelle ultime telefonate «Amore, sto arrivando». Le lacrime dei due afghani che non trovavano i figli
di Claudia Guasco
Martedì 28 Febbraio 2023, 07:13 - Ultimo agg. 16 Ottobre, 12:15
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Alle quattro di domenica mattina è ancora buio pesto, ma dopo quattro giorni di viaggio sul barcone dei migranti la speranza allarga i cuori. All'orizzonte si vedono le luci della Calabria, la meta è a poche miglia, la salvezza vicina. E così la giovane tunisina chiama in Germania il marito, siriano, per dargli la bella notizia: «Amore vedo le coste, stiamo quasi arrivando. Ti amo». La donna è impaziente, non si riabbracciano da due anni, lui non sa ancora che è l'ultima volta che sente la sua voce.

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I RICONOSCIMENTI

Cade la linea e il telefono della moglie si spegne per sempre, inghiottito dalle onde.

Il marito è in ansia, accende la televisione e la notizia del naufragio sulla spiaggia di Cutro lo travolge, prende un aereo e arriva in Italia. Prima tappa, il Cara di Capo Rizzuto: fornisce nome e cognome, la moglie non è nell'elenco dei superstiti ma in quello dei dispersi. E dopo qualche ora finirà nella lista nera delle vittime. «È stato straziante - racconta il direttore del centro di accoglienza Ignazio Mangione - Ancora ricordo il suo volto quando gli abbiamo detto che era tra i dispersi, lui ci guardava sorridente perché pensava che gli stessimo dicendo che l'avevamo trovata. Invece gli abbiamo dovuto dire che la moglie era morta nel disastro». Il mare restituisce scarpe, vestiti, una piccola borsa da donna. E altri cadaveri. Il corpo numero 63 viene recuperato verso le sei di ieri sera, è quello di una ragazzina di 14 anni. Ha i capelli ricci e neri, viene adagiata su un telo, e per ora non si sa chi sia. Forse qualcuno la riconoscerà tra i cadaveri allineati al Palasport di Crotone, ma senza una madre, un padre o un fratello che le restituiscano un'identità resterà per sempre la sigla su un cartellino. Come Kr14f9, età stimata nove anni, raccolta sulla spiaggia con la bocca piena di sabbia e diventata il simbolo di una strage nella quale i morti hanno perso anche la dignità di un nome. Per salvarla almeno dall'oblio, il sindaco di Catanzaro chiederà il permesso di seppellirla nel cimitero della sua città e «la chiameremo Angelita - dice - come la bambina che i soldati alleati nel 1944 trovarono sulla spiaggia di Anzio, sola e in lacrime e con quattro conchiglie in mano». E poi c'è lo strazio di chi è sopravvissuto e non è riuscito a salvare chi gli è stato affidato: un ragazzo siriano di 23 anni ha visto morire sotto i suoi occhi il fratellino di sei anni partito con lui per raggiungere l'Europa. «Ci ha spiegato che è rimasto in acqua per ore con il bambino, adagiandolo su un pezzo di legno della barca. Ma alla fine lo ha visto morire pian piano per ipotermia», riferisce Sergio Di Dato, responsabile di Msf a Crotone. «Lo strazio comune è vedere persone care morire davanti agli occhi, alla ricerca di una vita migliore».

 

LE FAMIGLIE

Molti sono ancora bambini, i sei minori ricoverati in ospedale hanno meno di 12 anni. Un ragazzino sedicenne era in viaggio con la sorella, con il terrore negli occhi ha ripercorso con i soccorritori ogni istante della tragedia: il barcone che arriva a 150 metri dalla costa e va in pezzi, loro due che nuotano verso la spiaggia. Ma quando arrivano lui si accorge che la sorella non c'è più, è scomparsa nel mare. A bordo era salita anche una piccola famiglia, composta da una ragazza e il suo giovane marito. Si sono sposati poco prima di partire dall'Afghanistan, lui è morto e lei è rimasta sola. Un padre e una madre, anche loro afghani, con ancora addosso i vestiti fradici e le escoriazioni sul corpo, cercano i loro figli. Non sono tra i vivi, così passano in rassegna i morti alzando uno per uno, con il fiato corto, i teli che coprono i cadaveri. «Non sono qui, nemmeno lì», dice lui. «Forse sono sull'ambulanza», è la speranza della madre, che prosegue nel suo straziante censimento. Fino alla telefonata che cambia tutto: «I vostri ragazzi sono ricoverati in ospedale, ma non sono in gravi condizioni. Stanno bene». La coppia si abbraccia stretta, piangono e ridono allo stesso tempo, poi si inginocchiano e pregano guadando il cielo in un silenzioso ringraziamento.
 

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