La Corte europea sanziona l’Italia: «Sentenza sessista»

La Corte europea sanziona l’Italia: «Sentenza sessista»
La Corte europea sanziona l’Italia: «Sentenza sessista»
Giovedì 27 Maggio 2021, 21:23
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La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l'Italia per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro con una sentenza che contiene «dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima», «dei commenti ingiustificati» e un «linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana». La vicenda riguarda l'assoluzione fatta nel 2015 dalla corte di appello di Firenze per sette giovani accusati di violenza sessuale di gruppo. Secondo l'accusa i sette avevano abusato di una ragazza il 26 luglio 2008. Sei di loro in primo grado erano stati condannati ma in appello poi furono assolti tutti. Su questa seconda sentenza adesso la Corte di Strasburgo, accogliendo il ricorso della vittima, ha condannato l'Italia a risarcirle un danno di 12mila euro per aver violato aspetti della sua vita privata. Il pronunciamento della Cedu non entra nel merito dell'assoluzione ma censura i contenuti sessisti delle motivazioni di secondo grado.

Riferimenti sessisti nelle motivazioni della sentenza

«Ingiustificato - affermano i giudici europei - il riferimento alla biancheria intima che la ricorrente indossava la sera dei fatti, come i commenti sulla sua bisessualità, le sue relazioni sentimentali o i rapporti sessuali che aveva avuto prima dei fatti presi in esame». I giudici di Strasburgo inoltre giudicano «inappropriate le considerazioni fatte sull'attitudine ambivalente rispetto al sesso della ricorrente».

La prima condanna, poi assoluzione in appello

Per l'accusa dopo aver passato la serata insieme al gruppo di giovani che la fecero ubriacare la ragazza venne accompagnata in un parcheggio vicino alla Fortezza da Basso di Firenze dove, in auto, avvenne lo stupro. Dopo la denuncia della ragazza gli imputati vennero arrestati. Il processo di primo grado si concluse il 14 gennaio 2013, con sei condanne a 4 anni e 6 mesi di reclusione e un'assoluzione. Due anni dopo, il 4 marzo 2015, la corte di appello assolse tutti 'perché il fatto non sussiste'.

La procura generale di Firenze non presentò mai ricorso in Cassazione ponendo fine di fatto alla vicenda giudiziaria. Nelle motivazioni i giudici di appello parlarono di una vicenda «incresciosa» e «non encomiabile per nessuno» ma «penalmente non censurabile». Per la corte di appello, con la sua denuncia la ragazza voleva «rimuovere» quello che riteneva essere stato un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità».

La denuncia della giovane

Un giudizio, quello sulle motivazioni dalle quali scaturì la denuncia della giovane e che la Corte di Strasburgo definisce «fuori contesto e deplorevole». Così come tutti i riferimenti alla «sua vita non lineare», secondo i contenuti della sentenza che fece molto discutere già all'epoca, provocando numerose proteste anche sui social. La stessa giovane rese pubblica una lettera in cui sosteneva che a essere giudicata era stata lei e non l'episodio che aveva denunciato. La Corte di Strasburgo afferma che questa violazione della vita privata e dell'immagine della ricorrente non può essere considerata «pertinente per vagliare la credibilità dell'interessata e la responsabilità penale degli accusati». Né può essere giustificata «dalla necessità di garantire il diritto alle difesa degli imputati». L'avvocato Titti Carrano, che l'ha rappresentata a Strasburgo si è detta «soddisfatta» del fatto che sia stato riconosciuto come la dignità della sua assistita sia stata «calpestata dall'autorità giudiziaria» che emise la sentenza di secondo grado. «La sentenza di appello - ha aggiunto - ha riproposto stereotipi di genere, minimizzando cosi la violenza, e ha rivittimizzato la ricorrente usando anche un linguaggio colpevolizzante. Purtroppo, questo non è l'unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale e sessuale. Questo succede spesso nei tribunali italiani».

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