Argentario, il sopravvissuto all'incidente: «Nessuno era al timone del motoscafo. Dai danesi nemmeno le scuse»

II superstite: «Se il mio amico Fernando non avesse virato saremmo morti tutti e sei, travolti come birilli»

Argentario, la barca a vela Vahinè travolta dal motoscafo della famiglia danese
Argentario, la barca a vela Vahinè travolta dal motoscafo della famiglia danese
di Valeria Di Corrado
Sabato 24 Settembre 2022, 00:04 - Ultimo agg. 16:16
5 Minuti di Lettura

«Io ho visto che non c’era nessuno alla guida del motoscafo che ci ha travolto». È sconvolgente la verità che emerge dalle parole di uno dei quattro sopravvissuti nell’incidente in mare al largo dell’Argentario, avvenuto il 23 luglio scorso, che è costato la vita a due romani: Andrea Coen (58 anni), titolare di una storica galleria di tappeti e arazzi in via Margutta rimasto intrappolato tra le eliche dello yacht, e Anna Claudia Cartoni (60 anni), tecnico federale di ginnastica artistica, il cui corpo non è stato ancora ripescato. A colpire in pieno la barca a vela “Vahinè”, con a bordo la comitiva dei sei amici, il potente motoscafo “Bibi Blue” di una famiglia di danesi in vacanza. A parlare, dopo due mesi di silenzio e un ricovero in ospedale, è Marco Avigdor D’Alberti, rimasto gravemente ferito nello scontro tra le due imbarcazioni.

Argentario, basta ricerche per Anna Laura Cartoni. «Non si troverà mai». Lo sconforto del marito

Come mai quella gita in barca?

«Da diversi anni a questa parte tutte le estati organizzavamo una piccola crociera. Eravamo partiti la mattina dal porto di Riva di Traiano. La nostra meta era l’isola del Giglio, dove contavamo di dormire la prima notte nella baia di Campese. Il programma era quello di proseguire per l’Elba e Capraia nei giorni successivi».

Cosa stava facendo lei prima dell’impatto?

«Stavo guardando in direzione dell’isola del Giglio.

Andrea Coen ha improvvisamente dato l’allarme, mi sono voltato e ho visto il motoscafo sopraggiungere da dietro a velocità molto elevata. La stima della Capitaneria di Porto Santo Stefano è di circa 34 nodi».

Voi avevate il motore acceso?

«Navigavamo a motore, senza le vele alzate».

Che manovra ha fatto Fernando Manzo, il marito della Cartoni, per evitare l’impatto? 

«Ha tentato una manovra disperata e probabilmente quella manovra ha salvato la vita di quattro persone, altrimenti saremmo stati tutti spazzati via come birilli».

Ha notato se qualcuno era al timone?

«Nel lasso di tempo in cui ho guardato in direzione del motoscafo non ho notato la presenza di alcuno alla guida e sembrava che non fosse governato. Fernando e Anna Claudia, nei pochi attimi precedenti l’impatto, hanno inutilmente provato a segnalare la nostra presenza con urla e agitando le braccia al cielo. Ma il motoscafo ci ha letteralmente travolti».

Qual è il primo ricordo che ha dopo la collisione?

«Il blu del mare sopra la mia testa. Ho nuotato verso la superficie e quando sono riemerso ho visto il mare disseminato di relitti e mia moglie e l’altra superstite ancora sulla nostra barca che gridavano aiuto. Fortunatamente sono riuscito a prendere un parabordo che stava galleggiando vicino a me. Poi ho visto Fernando, sanguinante, al mio fianco». 

 

Chi vi ha soccorsi?

«Dopo qualche tempo, non so dire quanto, siamo stati raggiunti a nuoto dal figlio del signor Horup, il quale ci ha trascinato a nuoto verso il suo motoscafo. Una volta giunti alla “spiaggetta” del motoscafo la fidanzata del giovane Horup si è preoccupata di tamponare le ferite di Fernando e di verificare il nostro stato di salute. Invece Horup senior non ci ha mai rivolto né uno sguardo né una parola: era occupato al telefonino».

Cosa pensa del fatto che abbiano cercato di scaricare su di voi parte della colpa dell’incidente?

«Credo che sia nel loro diritto provare a difendersi, un po’ meno arrivare a negare l’evidenza, soprattutto quando si verifica una tragedia come questa, anche nel rispetto di chi purtroppo non c’è più. Sono comunque fiducioso sul risultato delle indagini».

Cosa pensa del fatto che due giorni abbiano lasciato l’Italia?

«Se sono tornati in Danimarca vuol dire che il nostro ordinamento lo permetteva».

Hanno mai scritto a lei o sua moglie per chiedervi scusa?

«Hanno scritto a tutti noi dicendosi addolorati per quanto accaduto, ma senza mai scusarsi o riconoscere la colpa. Una letterina scritta in maniera a dir poco “oculata”».

Come state vivendo la perdita dei vostri due amici?

«Fa un certo effetto pensare ad Anna Claudia e ad Andrea che non ci sono più. È un dolore grandissimo ed una ferita ancora aperta. Stiamo tutti malissimo».

Ha ancora degli incubi su quel tragico pomeriggio?

«Per noi è veramente dura. I vari momenti della tragedia si ripresentano continuamente alla memoria. Sia io che mia moglie ci stiamo facendo aiutare da uno psicologo. Sono attimi veramente angoscianti».

Dal punto di vista fisico, come sta?

«Ho riportato numerose ferite e fratture multiple al bacino, vertebre e perone, urtando le ferramenta e alcune parti del pozzetto nel momento in cui sono stato sbalzato in acqua. Sono stato ricoverato all’ospedale di Grosseto (che ringrazio di tutto cuore), prima in terapia sub-intensiva e poi in ortopedia. Una volta dimesso, ho trascorso oltre due mesi immobilizzato su di un letto anti-decubito in attesa che le fratture si saldassero. Ora faccio qualche passo con le stampelle».

Secondo lei si arriverà a una condanna del signor Horup?

«Sono fiducioso che la Giustizia farà il suo corso, mi auguro in tempi rapidissimi. Non nutro sentimenti di vendetta, non fa parte del mio carattere. L’eventuale condanna di qualcuno non mi restituirà gli amici persi in maniera tragica e la serenità di vita che avevo prima. Ma è doveroso, anche per rispetto alla loro memoria, accertare la verità dei fatti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA