Coronavirus a Latina, focolaio indiano: in ospedale tutti in coda per un tampone

Coronavirus a Latina, focolaio indiano: in ospedale tutti in coda per un tampone
​Coronavirus a Latina, focolaio indiano: in ospedale tutti in coda per un tampone
di Giovanni Del Giaccio
Martedì 28 Luglio 2020, 00:27
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«Se scoppia lì è un macello». Se lo sono detto senza mezzi termini alla Asl, nei messaggi del gruppo che segue l’emergenza Covid. Lì è Bella Farnia, zona alle porte di Sabaudia, dove vive una folta comunità di indiani, spesso in condizioni abitative penose. La preoccupazione è scattata dopo il primo caso positivo tra di loro, un cittadino rientrato dal proprio Paese, e il timore è che si propagasse tra le migliaia di “invisibili” che si trovano nell’Agro pontino per lavorare nei campi. Sono 11.300 quelli censiti ufficialmente, ma si stima che in totale si arrivi a 20.000 e chi non è in regola è più soggetto al caporalato, figuriamoci se si sottopone ai controlli. 

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Per questo era necessario coinvolgere i responsabili delle comunità e fare in modo che lo screening arrivasse a più persone possibili, a cominciare da coloro che avevano partecipato a una funzione religiosa. Grazie ai rappresentanti sono partiti una serie di messaggi, anche via social, e il giorno dopo 208 cittadini indiani si sono ritrovati nella zona del proprio tempio, a Sabaudia, per eseguire il tampone. Erano a quella funzione, due di loro sono risultati positivi, nel frattempo c’è stato il caso di un giornalista che aveva fatto da “collegamento” tra due contagiati, fino a che si è arrivati a nove. Non si potevano correre rischi, era necessario evitare il propagarsi del virus, ricostruire ogni contatto. Così altri appelli, riunioni con i vertici della Asl, la decisione di far eseguire i test. «Una situazione che preoccupa tutti - ha detto il sindaco di Sabaudia, Giada Gervasi - ma c’è massima collaborazione e si stanno seguendo i protocolli». In spiaggia, dove ancora tanti si chiedono chi controlla i venditori ambulanti dopo il caso del bengalese positivo che ha viaggiato su un bus e andava a vendere proprio a Sabaudia, l’apprensione è palpabile: «Per noi mascherine e controlli, a loro?»
«Abbiamo paura - dice Gurmukh Singh, capo della comunità del Lazio - all’inizio non c’erano stati problemi, ma dopo i primi casi di chi era rientrato dall’estero ci siamo preoccupati e ci siamo messi a disposizione della Asl. Abbiamo fatto i video, chiesto la collaborazione, e hanno risposto in tanti».

Non a caso ieri mattina all’esterno dell’ospedale “Santa Maria Goretti” di Latina decine di automobili erano in fila per i tamponi “drive in”. «Ne facciamo una cinquantina al giorno» - spiegano dalla tenda dedicata a eseguire il test. C’erano - insieme a chi aveva la prescrizione del medico di base o deve partire per un viaggio - numerosi indiani, soprattutto commercianti. Quelli che possono muoversi oltre che essere regolari: «I figli sono nati qui, abbiamo saputo e siamo venuti». Ma c’erano anche quelli che sono in fase di regolarizzazione «e senza tampone non possono farla - spiega Gurmukh - ringraziamo il governo per aver consentito l’emersione, se non c’era questa possibilità non si sarebbero presentati». Fanno fatica normalmente a rivolgersi ai servizi sanitari, vanno in ospedale solo quando la situazione si aggrava, temono di perdere il lavoro. È così da sempre, ma ora siamo di fronte a un virus subdolo e non ci si può permettere errori. Così quelli che non possono andare a fare il tampone perché lavorano nei campi, domani mattina saranno raggiunti da una “squadra” della Asl che sarà proprio a Bella Farnia per 400 test sierologici. 

Un rapporto costruito negli anni, quello tra azienda sanitaria e popolazione indiana, fatto di ambulatori “a bassa soglia” ovvero portati direttamente dove si trovano gli stranieri, di dialogo, confronto. «Questo è stato possibile grazie alla collaborazione delle associazioni di volontariato che spesso lavorano nell’ombra ma ci hanno aiutato tantissimo - dice Arcangelo Maietta, responsabile dell’unità popolazione migrante della Asl di Latina - insieme a Caritas, Croce Rossa, Emergency e altre realtà già da tempo ci occupavamo degli stranieri, quando è scoppiata l’emergenza Covid avevamo un canale aperto e lo stiamo utilizzando al meglio». In via precauzionale i cinque luoghi di culto che gli indiani hanno in provincia sono chiusi, la situazione è costantemente monitorata con il direttore generale Giorgio Casati e il dirigente del dipartimento assistenza primaria, Loreto Bevilacqua. «Un conto è presentarsi come autorità, un altro è che un rappresentante religioso dica a tutti dal pulpito che c’è un problema e va affrontato - conclude Maietta - noi il dialogo lo abbiamo da tempo, oggi è il Covid, domani potrebbe essere il morbillo. L’assistenza sanitaria va fornita a tutti e l’apporto delle comunità è fondamentale». Gli indiani, “invisibili” compresi, lo stanno dimostrando.
 

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