Il confronto sempre più serrato tra maggioranza e opposizione circa i ritardi nel raggiungimento degli obiettivi del Pnrr non può oscurare il già scarso dibattito sulle modalità di distribuzione dei fondi. In queste settimane, infatti, gli organi di stampa hanno pubblicato interessanti analisi delle graduatorie per l'assegnazione dei fondi del Pnrr volti, ad esempio, ad aumentare il numero di posti nei nidi d'infanzia mediante l'ampliamento, la riconversione, la ricostruzione di edifici esistenti o la costruzione di nuovi. Il dato che più colpisce è che il 51,4% dei primi 2,24 miliardi di euro messi a bando sarà assegnato ai Comuni del Sud Italia. I Comuni più finanziati appartengono alle province di Bari, Napoli, Cosenza e Salerno. Tuttavia, questo dato, se meglio indagato, impone riflessioni tutt'altro che ottimistiche. Infatti, tenendo conto dell'attuale copertura di posti nido, si scopre che il 48,3% dei fondi sarà stanziato per Comuni - solitamente del Centro e del Nord Italia - in cui o sono già stati raggiunti o si è prossimi a raggiungere i Livelli essenziali di presentazione (Lep). E ancora, il 67,6% dei fondi giungerà a quei Comuni sottoposti nel presente e nel futuro a un calo demografico consistente, con la possibilità che in Molise arriveranno circa 9.100 euro a bambino mentre in Campania solo 2.742 euro.
Insomma, un'analisi più approfondita dei dati ci consegna l'immagine di un'Italia ancor più divisa al proprio interno con territori che, avendo già un buon numero di servizi educativi per l'infanzia o un numero ridotto di bambini, avranno più soldi da investire nella crescita dei minori rispetto ad altri territori, da sempre carenti in questo tipo di offerta educativa. Un divario, dunque, che non sarà ridotto dai nuovi fondi e che pone, ancora una volta, come centrale l'assenza di una visione politica solida e lungimirante dell'infanzia. Un'assenza però che non può essere né addebitata esclusivamente a chi governa le Istituzioni centrali e locali né scaricata totalmente sulla loro macchina burocratico-amministrativa, ma che ha da essere intesa come una più generale e complessa fragilità delle città e dei territori di pensarsi come luoghi in cui i bambini possano formarsi come persone e cittadini.
Da questa concezione deriva, poi, il metodo di lavoro che è stato utilizzato dai tre diversi governi che si sono succeduti a partire dal 2020 e da molte delle amministrazioni locali. Un metodo top-down che ha scoraggiato - se non addirittura reso impossibile - la co-progettazione degli interventi, lasciando così fuori dai tavoli decisionali tutte quelle realtà - scolastiche e accademiche, professionali e produttive, associative e culturali - che sono in costante ascolto delle vite bambine e che avrebbero potuto fornire conoscenze e competenze decisive per non perdere, soprattutto al Sud, questa occasione capitale. È in nome di questa sfida politico-culturale che i Centri di Ricerca Care e Die dell'Università Suor Orsola Benincasa hanno organizzato il Ciclo di Seminari "La città come comunità educante. Ripensare il vivere in città a partire da uno sguardo interdisciplinare e intersezionale", inteso come luogo di confronto tra università, istituzioni e territorio (programma completo degli incontri fino al 5 maggio su www.unisob.na.it/eventi).
* Professore associato di Pedagogia generale e sociale all'Università Suor Orsola Benincasa
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