Gentile Direttore, Spagna e Giappone si preparano a sperimentare la settimana lavorativa di quattro giorni con lo stesso stipendio previsto per cinque. Laddove è stata già applicata, la qualità del lavoro e la produttività sono aumentate contestualmente alla soddisfazione dei dipendenti. Insomma, questo tipo di misura piace. Ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, con lo stesso stipendio di cinque, migliora la qualità delle prestazioni dei dipendenti, li rende più felici avendo più tempo a dispozione per la famiglia e le proprie incombenze, favorisce l’economia ed abbatte persino l’inquinamento. Lei che pensa di questa innovazione nel mercato del lavoro? La ritiene applicabile nel nostro contesto normativo, occupazionale e sindacale?
Almerico Pagano
Scafati
Caro Almerico, che la produttività aumenti con la settimana lavorativa ridotta a 4 giorni e lo stipendio invariato è tutto da dimostrare. Può essere che sia così ma non abbiamo ancora dati a sufficienza per un giudizio, in quanto le riforme sono appena state annunciate. Vedremo. Per intanto è bene ricordare da dove si parte. Prendiamo il Giappone: le giornate lavorative di 12 ore sono la norma. Le ferie arrivano con il contagocce – dieci giorni all’anno all’inizio della carriera – e i lavoratori giapponesi, in media, ne prendono solo la metà. Il congedo di paternità è tra i più lunghi al mondo, fino a un anno. Eppure solo il 5 per cento degli uomini lo richiede. Il Giappone ha regalato al mondo l’espressione karōshi, morte per troppo lavoro. Altro che stakanov. La vita dei dipendenti è deprimente, molti dormono addirittura in azienda e la produttività negli ultimi anni si è in effetti abbassata. Da qui l’idea di ridurre i giorni lavorativi. In Italia mi pare che si parta da altri presupposti. Saremmo disposti a prendere tutto il modello giapponese? Credo di no.
Federico Monga