«La bellezza è un dono, non una proprietà»

«La bellezza è un dono, non una proprietà»
di Alfredo Romeo*
Domenica 3 Giugno 2018, 12:00
5 Minuti di Lettura
Caro direttore,

mi affaccio alla finestra di «Villa Romeo» (come impropriamente è stata definita la mia casa) e osservo il via vai del pontone, delle ruspe e degli uomini che sventrano la terra, estirpano le piante monumentali, casalinghe e spontanee che abbellivano un pezzo di bene comune su arenile demaniale posillipino.

Non racconto scempio, frastuono e confusione, abituali nella nostra città. Ma vorrei un registratore come quello di Massimo Troisi nel «Postino di Neruda», per riprodurre le urla strazianti, i gemiti, di quelle piante che stanno lì da oltre venticinque anni, e che ora sono sfrattate insieme a boccioli, fiori, radici e a quella fauna (dalle anatre di mare agli uccelli di passo, dai falchetti agli usignoli) che in quell'habitat avevano trovato un'oasi unica al mondo.

Osservo da cittadino e appassionato di piante, ovviamente questo feroce andirivieni con cui lo Stato, con molteplici volti, toglie un bene comune a se stesso e ai suoi cittadini.

Lei dirà: caro Romeo, ma quelle piante sono sue! E io le rispondo: no caro direttore, quelle piante sono sempre state di tutti. E infatti mai a nessuno è stato interdetto l'accesso a quell'area, mai nessuno ha avuto un divieto di godere quella bellezza. E mai dico mai il sottoscritto ha fatto una festa o bevuto un bicchiere di vino sotto quel verde. Al massimo (e centinaia di posillipini possono testimoniarlo) ci ho camminato avanti e indietro, spesso incrociandomi con bagnanti, bambini, visitatori, spose che ci andavano per le foto nuziali di rito.

Perché vede, direttore, il tema non è la proprietà che non è mia e che mai ho preteso o vantato, ma la bellezza. Non quella «grande» di un Sorrentino. Ma quella piccola che ogni cittadino può coltivare come idea, percezione, piacere e impegno. La bellezza di vedere una sporcizia ripulita, una rovina sistemata, una discarica trasformata in giardino per godere e far godere di una cosa bella a tutti. Come è sempre stato per quel pezzo di spiaggia e come forse non è nel resto della città. Ma niente polemica.

Non faccio qui, infatti, la storia dell'infinito contenzioso che porta ai nostri giorni. Racconto però pubblicamente e una volta per tutte che non ho mai voluto impossessarmi di niente. Ho solo sognato il verde. Un po' a casaccio, un po' con l'idea di bellezza come riqualificazione del territorio, l'idea di chi non sopporta di vedere l'abbandono e la trascuratezza sui marciapiedi della propria città, e quindi a maggior ragione davanti alla propria casa.

Ho piantato un tasso che era alto 20 centimetri, sbeffeggiato dal giardiniere a cui ho chiesto di innaffiarlo: Dotto', mi diceva, questa è una pianta di alta montagna. Qua muore. E invece il tasso si è adattato in quel micro-clima miracoloso che si è creato tra Palazzo Donn'Anna e Villa Pavoncelli. Come si sono adattate jacarande, eucalipti e dragocena. Che per anni hanno faticato contro sabbia, salmastro e sciroccate, per sopravvivere ignare della burocrazia.

Detto ciò, vanno sfrattate? E dunque che siano sfrattate, come gli abitanti abusivi dove che siano. Siano sfrattate insieme alle loro storie, tipo quella di una strelitzia che stava morendo ai bordi di un canale a Venezia. Meglio morire, pensai quindici anni fa, davanti al Vesuvio che non in quest'acqua fognosa. La strelitzia si è ripresa e ha fatto un altro po' di verde. E siano sfrattate anche le piante che decine di persone hanno portato su quell'area: come le margherite della signora Carmela del civico 19 o il mandarino cinese di un professore in pensione del Parco Carelli.

Lei dirà: ma se non erano sue, perché la difesa di quello spazio come questione di vita o di morte?

Potrei dirle che la guerra non l'ho fatta io, ma qualcuno l'ha fatta, e la fa, a me. Ma la verità è che la bellezza (è sempre e solo questo il tema) e soprattutto la bellezza comune è un bene raro, un dono, una salvezza dall'orrore del degrado e dell'abbandono. Mi sono illuso che fosse meglio per i miei figli e per la mia città vedere la chioma lilla di una jacaranda che non siringhe e plastiche catramose portate dal mare.

Possibile - mi son detto in questi giorni - che nessuno abbia pensato di affidare questo bene bello e collettivo a qualcuno che se ne prendesse cura? Associazione, movimento di cittadini, ambientalisti? Possibile che non ci sia una voce che dica: «Non volete che Romeo annaffi? Ok, annaffio io».

Mi chiedo se quella bellezza verrà salvata o verrà dispersa, come accade per alcune collezioni preziose senza più un curatore. Tenute insieme, quelle piante migranti per il sol fatto di venire da mille mondi diversi: «piante sans papier», si può dire? meriterebbero un biglietto per un'area a parte dell'Orto Botanico intitolata «Evoluzione stupefacente di flora posillipina».

Mi auguro che continuino a vivere, forse infelici nella loro nuova e forzata solitudine. Ma si sa, le piante per alcuni - non hanno anima, quindi è un pensiero mio un po' infantile. E mi auguro anche, però, da cittadino rispettoso delle leggi (checché se ne voglia dire) che un altro bene comune accogliente e aperto, magari ispirato alla bellezza pulita, ordinata e armonica che tanto manca alla nostra città, si sostituisca a quella eterna e incantevole pazienza del tasso e della jacaranda, che pur di sentirsi abusivi, hanno sfidato il vento e il tempo, e lo faranno molto più a lungo di tutti noi.

Io resto qui affacciato, pronto a vedere quali nuovi bellezze arriveranno. Poi la inviterò. Magari per ricordare insieme quella scena struggente del film di Gualtiero Jacopetti, «Africa addio», nella quale le ruspe di Jomo Keniatta sventravano i meravigliosi giardini degli inglesi per affermare il proprio potere. Anche quella era legalità.

Affacciati a quella finestra non vorrei, però, che dovessimo concludere anche noi con un malinconico «Napoli addio».

* imprenditore
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