Giornata della Memoria, Ravensbrück il lager delle donne. «La deportazione era una colpa...»

Il pannello di ritratti delle deportate che si trova al campo (foto AMBRA LAURENZI)
Il pannello di ritratti delle deportate che si trova al campo (foto AMBRA LAURENZI)
di Laura Bogliolo
Domenica 26 Gennaio 2020, 15:53
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«Era una colpa la deportazione, era una colpa anche il ritorno». Dietro le sofferenze inimmaginabili del campo di concentramento nazista di Ravensbrück, ci sono cicatrici meno visibili ma che squarciano comunque l'anima. «Quando sono tornate le donne non venivano credute neanche in famiglia, erano colpevolizzate perché dopotutto una donna doveva sposarsi, fare la madre e non pensare alla politica o ribellarsi alle regoli sociali». Per anni le deportate del lager, non parlarono perché «non hanno potuto sostenere l'offesa di non essere credute e per di più di essere colpevolizzate».

Il silenzio delle deportate del lager delle donne è durato cinquant’anni. E' stato così soprattutto in Italia dove c'erano e ci sono ancora molte disparità tra uomini e donne. In Francia Geneviève de Gaulle, nipote del generale francese Charles de Gaulle, e l'etnologa Germaine Tillion, entrambe deportate a Ravensbrück, sono sepolte nel Panyhéon dei Grandi di Francia». E in Italia? Si fece fatica ad accettare la storia delle deportate. Il silenzio fu una pietra nei cuori delle vittime, «non elaborarono mai il dolore, e ricominciarono a vivere costrette a considerare il lager come una parentesi della loro vita
». Quando le sopravvissute tornarono non c'era spazio per loro nella "morale collettiva" dominata ancora da una società patriarcale. Nell'Italia della disparità di genere anche il dolore e la sofferenza non meritavano ascolto. Loro, le vittime, hanno provato a dimenticare, senza riuscire a superare il trauma.



«Ogni legame parentale era annullato nel lager» dice Ambra Laurenzi (nella foto dentro l'articolo) che racconta le testimonianze delle vittime italiane, consigliera ANED, Associazione Nazionale Deportati nei campi nazisti, che dalla sua costituzione si impegna a preservare la memoria della deportazione e a diffondere tra i giovani la cultura della uguaglianza dei diritti e dell’accoglienza. «Una donna – dice - aveva partorito e dopo due settimane il piccolo morì: nelle sue testimonianze ha raccontato che tenne in braccio il bimbo per dieci giorni non per il dolore, ma perché questo le consentiva di non uscire dalla baracca e non rischiare le selezioni per la camera a gas.


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Un'altra storia, un altro dolore. «Una delle deportate – continua Ambra – durante l’appello venne chiamata con il numero di matricola, era terrorizzata, poteva significare qualsiasi punizione. «Mi dissero che era morta mia madre, mi sentii sollevata. Con grande coraggio ha sempre raccontato questa storia agli studenti che la ascoltavano, per far capire quanto disumano fosse il lager che annullava anche i sentimenti più profondi e naturali».

Nel campo di Ravensbrück, nato per le oppositrici politiche tedesche, furono deportate le donne dei paesi europei progressivamente occupati: politiche, ebree, testimoni di Geova, zingare, asociali, categoria in cui il regime nazista inseriva donne e ragazze che avevano un comportamento considerato contrario alla morale corrente e le lesbiche. Le sopravvissute, con le loro testimonianze, hanno cercato di colmare il vuoto, il silenzio e insieme a loro le seconde e terze generazioni che nel tempo le hanno affiancate. «Vennero a casa per arrestare mio zio partigiano e portarono via mia madre e mia nonna». Laurenzi è presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück è una stimatissima fotografa. Nel 2005 è andata a visitare il lager delle donne.«Fu uno scossone alla mia coscienza» dice.

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Nel 2006 ha realizzato il documentario “Le rose di Ravensbrück” sul campo dimenticato soprattutto dall'Italia. Il documentario è diventato da tempo materiale didattico, viene fatto vedere nelle scuole “è fondamentale, deve esserci un passaggio di testimone». Dimenticate, non credute. «Diverse donne rinunciarono anche al vitalizio di guerra perché sarebbe stato traumatizzante sottoporsi alle visite dei medici militari dopo quello che avevano subito, spogliarsi le riportava all’esperienza del campo, molte avevano i corpi devastati, preferirono rinunciare». Non si parla quasi mai di Ravensbrück e le cause sono anche storiche. «Il campo venne liberato dall'Armata Rossa,i soldati russi a differenza degli Alleati non fecero foto e video come è stato fatto negli altri campi. Inoltre era difficile da raggiungere: si trovava nella Ddr, e divenne il campo delle truppe russe».

Furono torturate, sottoposte a esperimenti medici, vittime di prostituzione forzata e costrette ai lavori forzati.
Furono 130 mila le donne immatricolate nel F.K.L. Frauen Konzentrationslager dimenticato.

(nella foto il pannello di ritratti delle deportate che si trova al campo. FOTO: Ambra Laurenzi)

 

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