Camilla Tinari, romana da premio Nobel: «Il mio lavoro? Aiutare gli altri»

Camilla Tinari, romana da premio Nobel: «Il mio lavoro? Aiutare gli altri»
di Maria Lombardi
Sabato 17 Ottobre 2020, 07:09 - Ultimo agg. 18 Ottobre, 08:22
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«Sana'a è una città bellissima». Camilla Tinari l'ha vista solo in lontananza, oltre i vetri blindati. A volte, in sottofondo, sente esplodere le bombe. «Noi non possiamo uscire. Prima del Covid andavano in macchina agli uffici del WFP, scortati, adesso viviamo reclusi nel compound». E nel fortino che la protegge e la tiene prigioniera, laggiù nel cuore dello Yemen, Camilla ha avuto la notizia. «Sono rimasta senza parole, come il mio direttore». Nobel per la Pace 2020 al World Food Programme. «Io non ci credevo. Pensavo a uno scherzo. No, non può essere». I messaggi dall'Italia, i complimenti, le lacrime in famiglia. Sì, il Nobel. «Il premio è di tutti noi che lavoriamo per consentire a chi non ha nulla di vivere nei propri paesi con dignità. È di ogni staff, e non importa che ruolo si copre». Il Nobel è anche di chi non c'è più. «È della mia cara amica Virginia Chimenti», aveva 26 anni, era sull'aereo dell'Ethiopian Airlines che il 10 marzo del 2019 precipitò. Camilla Tinari, romana di 28 anni, aveva conosciuto Virginia nello Yemen, tutte e due al WFP. «Lei ha cominciato nel 2017, io nel 2016, ci siamo incontrate prima che partissi per le mie missioni nel Sud Sudan. Abbiamo legato subito, ci incontravano a pranzo ogni singolo giorno. Ridevamo, ci divertivamo e lavoravamo. Ero qui in Yemen quando ho saputo dell'incidente. Il suo sorriso, la sua solarità me li porto dentro».

SOTTOTITOLI Nobel per la Pace al World Food Programme:


Di cosa si occupa in Yemen per il World Food Programme?
«Mi occupo di logistica, la colonna portante della distribuzione di assistenza alimentare e umanitaria nelle emergenze.

Basta pensare che ogni giorno nel mondo si muovono 5000 camion, 30 navi e 100 aerei per fare arrivare a destinazione gli aiuti del WFP. Io e il mio team ci occupiamo di distribuire non cibo, ma farmaci, kit delle emergenze e altro tipo di aiuti nello Yemen, e offriamo qui servizi alle altre agenzie dell'Onu e alle Ong. Ci assicuriamo che gli aiuti giungano in questo paese nonostante le difficoltà di accesso e i problemi di sicurezza. Una missione complicatissima».


Che difficoltà incontra una giovane donna a lavorare in questo ambito e in una situazione di tale pericolo?
«Enormi. Il lavoro mi piace moltissimo, il premio che abbiamo ricevuto ha ripagato tutti i sacrifici. Ma soprattutto all'inizio ho dovuto superare ostacoli di ogni tipo. Ho imparato a confrontarmi con i trasportatori yemeniti che non sono abituati a parlare con le donne e non mi davano alcun credito. C'è voluta tanta pazienza, i colleghi mi hanno aiutata e alla fine ce l'ho fatta. In tutto il mondo sono ancora poche le donne che lavorano nella logistica, in Medio Oriente sono una rarità. Ho capito anche, attraverso questa esperienza, che una donna per farsi valere in ambito professionale deve faticare molto di più di un uomo e per imporsi si carica del doppio del lavoro. Ma se i trasportatori nello Yemen non mi davano ascolto perché donna, da parte dei colleghi e dei capi ho avuto grandi dimostrazioni di fiducia».


Ha paura a lavorare in un paese in guerra?
«Non ho paura perché ci vengono garantiti tutti i livelli di sicurezza. Prima dell'emergenza Covid andavamo negli uffici con le macchine blindate. Adesso siamo in smart-working e non ci muoviamo dal compound. Ma anche prima ci era vietato spostarci da soli. Fare una passeggiata o shopping, andare in un bar o in un ristorante, incontrare un'amica non so più che cosa vuol dire. Le restrizioni sono davvero tante. A volte penso: ma chi me lo fa fare? Poi penso al lavoro che mi gratifica e mi dà così tanto e passa ogni dubbio».


Ha contatti con le donne yemenite?
«Li ho avuti fin quando abbiamo lavorato negli uffici, adesso che sono in smartworking quei contatti mi mancano. Sono donne molte forti, le yemenite. Quando ho lavorato al loro fianco fuori dagli uffici anche io ho dovuto indossare il velo, tutte le donne intorno a me erano coperte. La cosa più triste è vedere queste povere persone che non hanno niente, non hanno futuro. Il Covid è uno dei tanti problemi, qui la vera emergenza è il colera. Eppure gli yemeniti, sia donne che uomini, continuano a sorridere».


Che percorso ha fatto prima di arrivare nello Yemen?
«Dopo la laurea in Biologia ho fatto un master in Sviluppo sostenibile. Non pensavo alla logistica quando sono entrata come stagista nel WFP. Poi sono stata formata per questo tipo di lavoro, e ho cominciato a partire per le missioni, sono stata a Gibuti, in Giordania, in Sudan, oltre che in Yemen».


Infine, il Nobel.
«Pazzesco. Ho pensato a tutte le rinunce di questi anni, alla mia vita sospesa. Torno a Roma e non mi ritrovo più, poi sono qui e mi sento lontana dal mio modo di vivere. Però ne è valsa la pena».

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