La lettera di Michela Andreozzi a Babbo Natale: «Disinnesca il nostro ego e regalaci gentilezza ed empatia»

Babbo Natale (Getty Images)
Babbo Natale (Getty Images)
di Michela Andreozzi
Mercoledì 21 Dicembre 2022, 12:10 - Ultimo agg. 22 Dicembre, 14:23
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«Caro Babbo Natale. Quante lettere abbiamo scritto, quante ne abbiamo fatte scrivere a figli e nipoti? E quanto cambiano nel corso del tempo? È così che misuriamo la nostra evoluzione. Religiosi o meno, il Natale è sempre un momento in cui misurare il nostro grado di soddisfazione, lo stato di salute delle nostre aspirazioni, la fede nella magia della vita (seppur sommersi da spese, appuntamenti, anticipi Iva, costretti a subire parenti sgraditi, a disinnescare conflitti o fingere di apprezzare regali riciclati, commenti inopportuni, insomma, a ingoiare rospi genealogici insieme al pandoro). Perché, in fondo, questo siamo: una infinita raccolta di sogni. Nella prima infanzia, e per un discreto periodo di reciproca conoscenza, la lettera a Babbo Natale è scritta dai genitori: i regali sono utilità e giocattoli commisurati alle loro possibilità e alla volontà di consolidare una tradizione, tramandare una eredità o semplicemente per continuare a giocare: mia madre, appassionata di mitologia, mi regalò un mucchio di libri per bambini sul tema e sono abbastanza sicura che le piacessero più di quanto piacevano a me.

Non fraintendetemi, adoravo ascoltarla mentre mi raccontava le storie di Ettore e Achille - che ancora ricorda a memoria, nonostante le sfugga il menù del pranzo di ieri - ma ero anche piuttosto innamorata della brutta bambola che mi aveva regalato una amica di famiglia - altrettanto brutta, secondo mia madre - e che fu la mia preferita per anni a fronte di un mucchio di doni intelligenti e stimolanti, ma penso di averla amata proprio perché era così brutta: se non l’avessi adottata io, nessuno l’avrebbe fatto. In età scolare cominciai a scrivere le lettere da sola, tenendo sempre un orecchio alle indicazioni dei miei per sapere se c’era qualcosa che potevo o non potevo chiedere: il camper di Barbie, che ho sempre preferito alla casa, migliaia di pennarelli, un gioco da tavolo di cui avevo visto la pubblicità su Topolino. Ovviamente nutrivo dubbi su Babbo Natale: da brava figlia di avvocati, mi sembrava molto strano che qualcuno riuscisse a consegnare tutti quei regali in una notte senza che un sindacato protestasse.

E poi distribuiva doni a casaccio: perché non occuparsi prima di quei bambini meno abbienti che mia madre usava come spauracchio per farmi finire di mangiare il fegato ai ferri? E il mistero del Babbo Natale Degli Zii che arrivava sempre fuori tempo, con regali mai richiesti e spesso incomprensibili? Una volta mi fu rifilata una fruttiera, credo di avere pianto. Dubitavo dunque, ma questo non toglieva nulla alla magia. Ricordo la trepidazione di spiare mio padre che nottetempo riempiva l’albero della sala da pranzo di grossi pacchi di plastica nera, rigorosamente tre come noi, rigorosamente pieni dello stesso numero di regali. E l’emozione di aprirli e vedere se i nostri desideri fossero stati esauditi, da chi poco importava. Crescendo, ho chiesto trucchi, borsette, il primo paio di tacchi, le chiavi di casa per uscire la sera e non citofonare più. Ad ogni Natale, il mio essere umano cambiava forma.

Quando condividevo l’albero con quattro discutibili coinquilini, desideravo dimagrire, un motorino, che poi è stato il primo regalo che mi sono fatta da sola, dei pegni d’amore. Qualcosa arrivava, qualcosa no: ricordo con molto divertimento uno spiritoso ex fidanzato che mi fece trovare sotto l’albero una scatola di una nota marca di gioielli con, al suo interno, tre fotografie e la scritta “un demente è per sempre”. Finì, ma non per quello. Quando ho avuto un albero di Natale tutto mio, volevo guadagnare, avere una macchina, fare un viaggio a New York, trovare l’amore. Molto di quanto ho desiderato si è avverato, mi reputo estremamente fortunata. Ma oggi sono felice solo quando questa felicità è condivisa. E non è forse questo il senso? Cercare di essere umani dignitosi? Provare ad essere la tessera del mosaico di un mondo migliore? Fare come il colibrì della favola africana, che quando scoppia un incendio nella giungla, corre a prendere l’acqua col suo piccolo becco: non spegnerà il fuoco, ma fa la sua parte. E il Natale ci ricorda che possiamo farla, la nostra parte. Se mai dovessi scrivere una lettera oggi, chiederei di diventare più brava ad accogliere, accettare, trasformare. Di espandere l’empatia, silenziare il giudizio, incrementare i sorrisi. Di disinnescare l’ego. Di riuscire a tendere la mano nel momento in cui vorrei nasconderla, di ascoltare quando ho voglia di parlare, di tacere quando credo di avere ragione. Di essere gentile, perché la gentilezza è gratis, ma non ha prezzo. Perché siamo ciò che desideriamo, e la storia dei nostri sogni è la nostra storia. Ma in fondo, e più di ogni altra cosa, noi siamo tutti gli altri. Buon Natale»

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