Russia, tensioni in Cecenia e Dagestan. L'esperto: «Minano il ruolo internazionale di Mosca»

Le due regioni popolate da minoranze etniche ritengono di aver già dato uomini in abbondanza alla guerra di Putin

Russia, tensioni in Cecenia e Dagestan. L'esperto: «Minano il ruolo internazionale di Mosca»
Russia, tensioni in Cecenia e Dagestan. L'esperto: «Minano il ruolo internazionale di Mosca»
di Fausto Caruso
Martedì 4 Ottobre 2022, 12:08 - Ultimo agg. 15:30
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Scontri, arresti, un poliziotto inseguito da un gruppo di donne inferocite e un padre che si fa saltare in aria con un agente di reclutamento. Sono solo alcune delle scene diffuse sui social che raccontano il crescente malcontento che la «mobilitazione parziale» indetta dal presidente russo Vladimir Putin sta causando in tutta la Russia, in particolare in Cecenia e Dagestan, le due regioni che hanno già pagato il più alto tributo di uomini all’«operazione militare speciale» condotta dallo zar in Ucraina.

Le minoranze e la strategia di Putin

Fin dall’inizio dell’invasione, gli analisti internazionali hanno evidenziato come i soldati mandati in prima linea da Putin venissero nella maggior parte dalle regioni rurali più povere in cui le resistenze alla mobilitazione sarebbero state inferiori o comunque meno visibili fuori dai confini della Federazione. Una strategia che si è acutizzata con la «mobilitazione parziale» lanciata il 21 settembre, ma che ora rischia di rivelarsi un boomerang.

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Le proteste sono particolarmente violente in Dagestan, regione a maggioranza musulmana al confine con l’Azerbaijan, che secondo le stime della BBC avrebbe avuto una percentuale di morti più di dieci volte superiore a quella dell’area di Mosca. «I nostri figli non sono fertilizzante» è il grido delle donne della regione che protestano contro gli agenti che reclutano figli e mariti per mandarli al fronte. «Non è stata l’Ucraina ad attaccare la Russia. Siamo stati noi ad andare da loro», gridavano i dimostranti, evidenziando le ormai irreparabili falle nella narrativa della propaganda russa, che vorrebbe mostrare la guerra in Ucraina come un intervento difensivo. «Sono stati fatti degli errori. La mobilitazione parziale deve essere condotta solo secondo i criteri annunciati dal presidente», ha dovuto ammettere su Telegram il governatore del Dagestan Sergei Melikov. Agli abitanti del Dagestan e alle altre minoranze si è rivolto su Twitter anche il presidente ucraino Zelensky: «I dagestani non dovrebbero morire in Ucraina», ha detto parlando sa sotto il monumento a Imam Shamil, eroe Dagestano che combatté contro i russi. «Ceceni, ingusceti, ossezi, circassi.

Sapete chi vi sta mandando in Ucraina», ha detto rivolgendosi alle altre minoranze russe e cercando di far leva sul malcontento.

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Situazione non molto diversa nella vicina Cecenia, controllata da Razman Kadyrov, uno dei super falchi del Cremlino che di recente ha evocato l’uso di armi nucleari tattiche in Ucraina e si è vantato di aver mandato al fronte i figli adolescenti. Anche il leader ceceno deve però far fronte al malcontento popolare e due settimane fa ha dichiarato pubblicamente che la Cecenia aveva già fornito a Mosca il 254% degli uomini previsti dalla mobilitazione parziale, un invito implicito a Mosca a non chiederne altri.

Le possibili conseguenze della mobilitazione

«Nei sistemi non democratici ci sono dei segnali che prendono il posto delle elezioni. La protesta contro provvedimenti impopolari, in Cecenia come a Theran, marca una presa di distanza dalle posizioni ufficiali», commenta Gregory Alegi, professore di relazioni internazionali all’università Luiss. Secondo alcuni osservatori come Paul Goble del Dipartimento di Stato americano, citato da Yahoo News, queste proteste potrebbero riaccendere sentimenti indipendentisti che in quelle regioni erano stati repressi nel sangue. Proprio in Cecenia Putin aveva dato la prima dimostrazione della sua brutalità radendo al suolo Grozny poco dopo essere diventato presidente nel 1999. Secondo Alegi però, più che i confini, è il ruolo internazionale della Russia a essere in pericolo, soprattutto quello all’interno del Collective Treaty Security Organization (l’alleanza militare che comprende anche Armenia, Bielorussia, Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan). «Queste alleanze si reggono su un partner pesante in grado di intervenire nei momenti di tensione. Abbiamo visto che la Russia non è in grado di farlo, anzi, è essa stessa che crea i problemi».

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La mobilitazione per Putin rappresenta però soprattutto un problema di politica interna. A differenza dei comunicati che prevedevano di mobilitare solo chi era nelle liste di riserva e aveva già esperienza di combattimento, il reclutamento sta procedendo in maniera indiscriminata e gli uomini vengono mandati al fronte senza nessun addestramento. «La gestione della mobilitazione è fra l’inutile e il dilettantesco. Così non ha nessuna efficacia militare», spiega Alegi, che poi si sofferma sulla strategia di Putin: «I centri urbani sono sempre politicamente sensibili e si è cercato di non toccarli, così il peso della mobilitazione è ricaduto sulle province. Ma ora le campagne dicono: “Basta. Abbiamo già dato”». Si tratta di segnali che se non vengono capiti in tempo possono portare a esacerbare la tensione sociale ed è probabile che presto vengano chieste delle concessioni in cambio. «Più che territoriali le compensazioni potranno essere politiche, ad esempio un ruolo più importante per un leader come Kadyrov». Lungi dal cercare un cambio di strategia, la rotta dello zar potrebbe andare verso la propaganda cospirazionista: «La tentazione dei sistemi non democratici è di non leggere questi segnali», chiosa Alegi. «È facile che, come in Iran, la colpa venga dirottata su dei fantomatici sobillatori provenienti dagli Stati Uniti».

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