Covid, studio Usa: lockdown più lunghi e rigidi garantiscono ripresa economica più forte

I contagiati dall'influenza spagnola di inizio 1900 negli Stati Uniti
I contagiati dall'influenza spagnola di inizio 1900 negli Stati Uniti
di Francesco Padoa
Lunedì 15 Febbraio 2021, 11:04 - Ultimo agg. 14:47
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Economia mondiale in tilt per il coronavirus. Il lockdown che blocca qualsiasi attività, imprese vicine al collasso, la disperata volontà di ricominciare il prima possibile per paura non poter più riprendersi. Ma la storia insegna che non sempre quello che calcoli e ragionamento dicono poi coincide con la realtà. C'è uno studio americano a darci un minimo di speranza in più, l'illusione che più lungo sarà il lockdown applicato dai governi, più la ripresa economica, dopo, sarà consistente.

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Questa ricerca, che analizza il rapporto fra gli interventi di salute pubblica e l’andamento dell’economia successivamente alla pandemia relativa all’influenza spagnola del 1918-1920, suggerisce una dinamica diversa da quella che in queste settimane viene considerata.

Nello studio, riportato dal New York Times, con tanto di grafico molto esplicativo (che pubblichiamo qui sotto), Sergio Correia e Stephan Luck della Federal Reserve, assieme a Emil Verner del Mit, hanno studiato il comportamento delle città e degli stati americani, che per affrontare quella emergenza sanitaria a inizio secolo adottarono strategie anche radicalmente diverse, incrociando le misure di contenimento adottate, il tasso di mortalità e l’andamento dell’economia negli anni successivi.

E ne viene fuori un quadro quasi sensazionale. Per fare un esempio subito chiaro, prendiamo il caso emblematico di Minneapolis e Saint Paul, due città considerate gemelle, le maggiori dello Stato del Minnesota, la più popolata la prima e capitale la seconda, divise solo dal fiume Mississipi, che ne spacca in due l'agglomerato urbano. Stessa società, usi, consumi, cultura, solo amministrazioni locali diverse e diverse strategie.

Opposte, un secolo fa, nell'affrontare l'emergenza scatenata dalla diffusione dell'influenza spagnola, che è bene ricordarlo, ebbe ben altri effetti sull'umanità rispetto a quelli che, si spera, potrebbe avere il coronavirus: si stima che un terzo della popolazione mondiale fu colpito dall’infezione durante la pandemia del 1918–1920.

La malattia fu eccezionalmente severa, con una letalità maggiore del 2,5% e circa 50 milioni di decessi, alcuni ipotizzano fino a 100 milioni. Lo studio di Verner rivela che le città che adottarono misure più restrittive e le mantennero più a lungo, oltre a registrare alla fine un numero minore di vittime, ebbero tassi di crescita economica più alti di chi invece ha scelto riaperture più immediate.

«Le misure di contenimento hanno avuto un ruolo nell’attenuare la mortalità, ma senza ridurre l’attività economica» rispetto a chi ha preso strade diverse, scrivono gli autori dello studio. «Semmai, le città che hanno mantenuto queste chiusure per periodi più lunghi sono cresciute più velocemente nel medio termine».

Riaperture troppo rapide rispetto all’andamento della malattia hanno esteso nel tempo e reso più gravi le conseguenze. Seattle (come è evidentissimo dal grafico) è stata la città con il miglior rapporto fra mortalità pandemica e rilancio economico dopo l'emergenza: la quarantena record durò 168 giorni.

E memore dei risultati positivi di un secolo fa, la metropoli dello Stato di Washington si ripete anche con il coronavirus: è stata infatti, il 10 marzo, la prima città americana a chiudere tutte le scuole.

Tornando al Minnesota, come riporta il NYT, «dato che i primi decessi per influenza locale furono contati nell'autunno del 1918, i funzionari di Minneapolis si mossero rapidamente - in modo più aggressivo di quanto persino i funzionari della sanità dello stato ritenessero saggi - e chiusero la città. Hanno chiuso scuole, chiese, teatri e sale da biliardo, a partire da mezzanotte del 12 ottobre». E a Saint Paul? «Dall'altra parte del Mississippi, la capitale è rimasta in gran parte aperta fino a novembre, con i suoi leader sicuri di avere l'epidemia sotto controllo. Tre settimane dopo Minneapolis - con il giornale The St. Paul Pioneer Press che titolava "In Heaven's Name Do Something!"  (In paradiso qualcuno faccia qualcosa) -  anche St. Paul ordinò ampie chiusure. Entrambe le città, rispetto alle zone più colpite del paese, riuscirono a evitare pesantissimi tributi di morte.

Ma il tasso di mortalità a Minneapolis fu considerevolmente più basso che a Saint Paul. E ricercatori oggi studiando quegli interventi, rilevano come anche l'economia di Minneapolis sia emersa più forte. Il confronto tra le Twin Cities è istruttivo non solo per ciò che ci dice sui benefici del distanziamento sociale per la salute, ma anche per ciò che dice su eventuali costi economici che ne derivano. Nel 1918, le città che si impegnarono prima e più a lungo in interventi come vietare le riunioni pubbliche e chiudere le scuole non registrarono crisi peggiori per aver interrotto più a lungo le loro economie.

Molte di queste città hanno effettivamente ottenuto guadagni relativamente maggiori nella produzione manifatturiera e nelle attività bancarie nel 1919 e negli anni successivi, secondo lo studio condotto dai ricercatori della Federal Reserve e di M.I.T. Ciò è particolarmente evidente tra le città occidentali che hanno avuto più tempo per prepararsi a una pandemia che ha colpito prima la costa orientale. Per le città con gli interventi più aggressivi, non vi è alcun compromesso tra il salvare vite umane e danneggiare l'economia. «Semmai, queste città si sono riprese meglio -, ha sottolineato Emil Verner - La pandemia stessa è così distruttiva per l'economia, quindi qualsiasi politica che puoi usare che mitiga direttamente la gravità della pandemia può effettivamente essere vantaggiosa per l'economia. Interventi più rigorosi rendono effettivamente più sicura la ripresa dell'attività economica e mitigano l'impatto negativo della pandemia stessa sulla mortalità».

«Era un'economia molto maschilista, in cui i capofamiglia erano quasi esclusivamente uomini - ha spiegato Howard Markel, ex direttore del Center for the History of Medicine presso l'Università del Michigan. - Il minor numero di uomini morti che potevano andare e proseguire il loro lavoro una volta finita l'emergenza significava che quelle famiglie stavano meglio di quelle che avevano perso quel capofamiglia, che sarebbe diventato potenzialmente indigente». Dai registri storici di allora si evince come le città hanno reagito all'influenza del 1918 e quante morti sono state contate mentre la pandemia dilagava. Evidenziando che laddove le misure restrittive furono mantenute più a lungo ebbero più successo nella gestione dell'epidemia e nella riduzione del numero di vittime. Ora la nuova ricerca di Verner e colleghi aggiunge dati economici a quel risultato sanitario. Certo, alcune città hanno avuto economie più forti nella pandemia o sono state colpite in modo maggiore per ragioni che avevano poco a che fare l'influenza.

Ma il modello che i ricercatori hanno elaborato (ed illustrato nel grafico) tiene conto anche delle differenze economiche e demografiche tra le città. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti, anche se le città hanno avuto più tempo per prepararsi all'epidemia, Los Angeles dichiarò lo stato di emergenza e bandì da subito tutti gli incontri pubblici, mentre San Francisco si concentrò nell'incoraggiare i residenti a indossare maschere in pubblico, il che si rivelò inefficace. Pittsburgh ritardò la chiusura delle sue scuole più a lungo di altre città industriali orientali come Cleveland, ed ebbe conseguenze più gravi. Nei resoconti delle notizie locali all'epoca redatti dal team di Markel, ci sono molti esempi di imprenditori che si sono opposti alle chiusure, anche facendo pressioni per farle annullare. Ad Atlanta, i proprietari di teatri e le sale cinematografiche si lamentarono delle loro perdite, così come i commercianti a Columbus, gli hotel di Cleveland. Ma ci sono meno prove che le persone fossero preoccupate per il danno economico duraturo derivante da quelle misure di salute pubblica.

«Minneapolis era quasi schizofrenica - ha raccontato Iric Nathanson, che studia la pandemia del 1918 - le persone celebravano la conclusione della prima guerra mondiale ma contemporaneamente erano preoccupate per il fatto che la malattia si diffondesse tragicamente. Non credo che nessuno avesse supposto che ci sarebbe stata una ricaduta economica a lungo termine». Perché gli americani nel 1918 erano abituati a economie più localizzate, mentre l'economia è ora globale, e lasciando le comunità locali sensibili agli effetti del coronavirus in ogni parte del mondo. «Ma la lezione del 1918 – è la conclusione dell'articolo del New York Times - è probabilmente ancora vera oggi: è la pandemia che fa davvero male all'economia, non le cose che facciamo per cercare di contenerla».

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