«Abbiamo installato un sistema anticarro, una mitragliatrice 30mm e i lanciagranate fumogene. Con questa macchina da guerra i russi li rimandiamo tutti a casa». Fronte di combattimento ad est di Kharkiv, siamo a dieci chilometri dal centro città e a meno di due dall’esercito russo. L’allerta è continua, come i bombardamenti. Qui si combatte giorno e notte, da oltre un mese. Un elicottero russo prova ad avvicinarsi, parte la contraerea e lui arretra. Dopo un’ora si avvicinano due carri armati con la “Z”, il simbolo delle squadre d’invasione provenienti da est: colpi di mitragliatrice, qualche cannonata e si torna indietro. I rischi sono tutti calcolati. E nel caso in cui un blindato dovesse riuscire a passare la linea ci sono i Javelin americani sempre pronti a colpire.
SOTTO IL FUOCO
Un missile parte da est, la contraerea risponde intercettando l’attacco.
SUI CARRI ARMATI
Nascosto in una trincea scavata appositamente per lui e coperto dalle tende militari maculate che vengono cucite a mano dalle donne di mezza Ucraina, il mezzo a otto ruote appare quasi innocuo. «Non è mica il modello base - parte subito il sergente - l’abbiamo modificato aggiungendo un po’ di sorprese per i russi». Il Btr è un mezzo da guerra storico, utilizzato già a partire dagli anni Sessanta nei paesi sovietici, è diventato famoso come “barca con le ruote” per le sue capacità anfibie e non a caso a poche centinaia di metri da qui passa il fiume Nemyshlya. «Il mezzo è pronto a muoversi in qualsiasi momento - prosegue il sergente - Ha due motori Iveco da 150 cavalli, roba italiana e quindi di qualità». Facciamo ritorno alla trincea, tre soldati sono raggruppati intorno ad una mitragliatrice pesante: uno comunica con il resto del battaglione, uno con il binocolo sorveglia la situazione mentre il terzo con il grilletto in mano è pronto a fare fuoco. La situazione però non è sempre tesa, dopo 37 giorni qui si parla di «normalizzazione delle guerra».
VITA IN TRINCEA
I soldati non sembrano nemmeno far caso alle esplosioni e ai colpi che ogni cinque minuti interrompono il silenzio del bosco. Mentre un gruppo è pronto a dare il cambio alla mitragliatrice ci invitano a scendere nel bunker costruito sotto terra. Si percorrono pochi metri di trincea e si entra in questa stanza scavata nella terra alta poco più di un metro. Il soffitto è composto da lunghi tronchi di legno mentre le pareti sono imbottite con i sacchi di sabbia, fondamentali per attutire le esplosioni. Una scorta di armi ed elmetti a disposizione, scorte di acqua e cibo con la possibilità di scaldarsi qualcosa, una stufa - fondamentale nell’infinito inverno ucraino - e dei materassi per riposare. A comandare questo avamposto è il sergente Ihor, un giovane veterano del Donbass di 31 anni che in un momento di pausa si lascia andare alle confessioni e un po’ si fa tradire dall’emozione: «Ho visto la prima volta mia figlia quando aveva tre anni. La seconda volta quando ne aveva già cinque». Ihor era tornato a casa da appena sei mesi, aveva ripreso gli studi per diventare medico: «Voglio salvare le vite, invece sono costretto a uccidere». Lui quel maledetto 24 febbraio, primo giorno dell’invasione, se lo ricorda bene: «Alle 5 del mattino siamo stati svegliati dai bombardamenti, ho capito che la guerra era iniziata. Sapevo perfettamente cosa fare, ho preso il fucile e lo zaino e sono andato ad arruolarmi come volontario, di nuovo».