Francesca Amirante: «La mia Napoli città mozzafiato tra suoni, cibo e magia»

Francesca Amirante: «La mia Napoli città mozzafiato tra suoni, cibo e magia»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 4 Marzo 2022, 14:00
5 Minuti di Lettura

La sua Napoli va adagio. Da via Tribunali alla Certosa di San Martino - per lei uno dei posti più belli al mondo - dalla spiaggia di largo Sermoneta allo stadio di Fuorigrotta, dal convento di San Gregorio Armeno a San Giovanni a Carbonara, Capodimonte, Monteoliveto e pure la Gaiola. Francesca Amirante - storica dell'arte - ha scelto di andare adagio nella sua straordinaria passeggiata attraverso il meglio che questa città può offrire. 

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Partiamo da qui: Napoli adagio. Che cosa vuol dire?
«È il titolo che ho dato alla mia guida».

Guida turistica?
«Qualcosa in più».

In che senso?
«È un punto di vista in realtà. L'obiettivo, anzi direi l'ambizione, è quella di arrivare al cuore, talvolta all'anima dei luoghi, incuriosendo il lettore al punto da rendere la visita irrinunciabile».

Ma perché adagio?
«È l'andamento più congeniale allo stile dei napoletani che però tiene in sè anche grandi contrasti. È una città, la nostra, che vive di luci e ombre, nobiltà e trascuratezza, cultura raffinata e ignoranza becera, generosità e spietatezza».

Sarà irresistibile anche per questo?
«Pensate solo alla cucina».

Contrasti anche qui?
«Ore di lavoro per preparare un ragù ma pochi minuti sono più che sufficienti per friggere un'alice o mettere su uno scarpariello».

Il buon cibo prima di tutto.
«Certo.

E anche il pasto non sfugge alla nostra discordanza. Pranzi interminabili da un lato, penso a quelli della domenica, e dall'altro la possibilità di mangiare al volo una pizza a portafoglio».

Cominciamo con i consigli. Prima tappa alla scoperta della città.
«Parto da Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco perché è il mio luogo di elezione, altrimenti c'è solo da scegliere. Al Purgatorio mi sento a casa: professorè, dottorè venite qua, prendetevi un caffè. Tutto apposto?».

Lei è anche la curatrice di quel complesso.
«Un lavoro che mi appassiona. Dal punto di vista sociale e antropologico è un bacino inesauribile».

Che cosa la affascina di più?
«La straordinaria relazione che c'è con la morte».

L'ipogeo è un luogo mistico senza pari.
«Quando ho dovuto cercare le parole giuste per far entrare qualcuno nello spirito del Purgatorio, ma più in generale nelle suggestioni di questa città, ne ho scelte due».

Quali?
«Morte e musica».

Perché?
«I napoletani hanno l'attitudine a esorcizzare, a trasformare tutte le esperienze, anche le più drammatiche, in qualcosa di bello, dolce e vitale, ma anche estremamente fugace, proprio come la musica».

O come le anime pezzentelle. Quanto culto e quanta scaramanzia?
«L'ipogeo è un luogo assai delicato, di grande rispetto dal punto di vista umano e religioso. Il culto di quelle anime non è mai stato sfruttato dai napoletani come slogan per catturare turisti».

In tanti chiedono ancora grazie e intercessioni.
«Certo. Lumini, fiori, rosari, piccoli oggetti lasciati accanto ai teschi testimoniano la cura, l'amore e la fiducia riposta in queste anime antiche. Ricordo ancora una signora del Nord, venne a pregare qui perché voleva una figlia femmina».

Incredibile.
«Ma vero. Dopo qualche tempo è tornata con una bambina in braccio e una preziosa tazzina di porcellana da offrire in segno di ringraziamento. Di stravaganze nel tempo ne ho viste tante ma fa parte del luogo e va bene così».

Consigli per passeggiate al tramonto?
«La spiaggia di largo Sermoneta è il mio posto, ci vado quando ho voglia di tranquillità. Ma anche Bagnoli è irrinunciabile. Godetevi il sole avanzando lentamente verso la fine del pontile senza chiedervi il perché di tanto degrado intorno. Da un lato c'è l'isola di Nisida, a destra il rione Terra e Pozzuoli. Sedersi è scomodo ma che importa».

Come nasce il suo amore per l'arte?
«È l'aria che ho sempre respirato in famiglia con due genitori - papà magistrato e mamma architetto - appassionati di cultura, musica e tradizioni. Dalla Gatta cenerentola a Masaniello al Carmine: si andava sempre in giro: spettacoli, visite, mostre. Una dimensione familiare, devo ammettere, molto stimolante. Ricordo che in terza media la mia tesina d'esame fu su Monteoliveto e Sant'Anna dei Lombardi».

Poi la facoltà di Lettere.
«È all'università che ho cominciato a studiare i luoghi. Grazie a Monumenti porte aperte sono arrivata dritta al cuore scoprendo parti di città troppo a lungo negate: i Girolamini è una di quelle».

Dall'arte al cibo. Napoli adagio si dedica anche a questo.
«E certo. Parto dalla brioche ma non avrei mai potuto dimenticare la pizzetta dell'ex Moccia, la cioccolata foresta o i taralli di Secondigliano».

Le piace particolarmente la brioche?
«Il cornetto va per la maggiore, lo so, ma io preferisco la brioche: la trovo più rassicurante. Potrei scrivere un trattato, le ho provate quasi tutte».

Qual è la migliore?
«Non è sempre facile mangiare una buona brioche: le pasticcerie che le facevano meglio, penso a Florence e Caflish, hanno chiuso».

Quindi?
«Il bar Cimmino non è male. Niente male anche Ciro a Mergellina ma va mangiata col gelato. Nella zona di Montesanto, invece, c'è il bar Tarantino che pure consiglio. Infine, per un adagio vomerese, tappa al Caffè Salvo in via Alvino».

Chiudiamo in bellezza con il nome del miglior ristorante che c'è.
«Sono di parte se dico la Taverna dell'Arte a San Giovanni Maggiore?».

No, perché?
«È il locale di mio marito. Dite pure che vi mando io». 

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