Napoli, la burocrazia alleata del degrado dell'arte

di Piero Sorrentino
Mercoledì 27 Novembre 2019, 08:00
4 Minuti di Lettura
Tra i molti motivi che rendono Napoli una città anomala ce n'è uno che riesce a imporsi ogni volta con una forza sorprendente. È il modo in cui riesce a tenere dentro un unico luogo la sintesi di due o più strappi. A pensarci bene non è così facile, non è così scontato, eppure questa città sa mirabilmente fondere i suoi declini dentro una pentola unica, riesce a unire dentro una sola milizia armata le singole voci del suo declino, amalgama in un medesimo bollettino dello scoramento le notizie sparse del suo lento marcire. È un esercizio di sintesi che potrebbe avere anche del virtuoso, se invece non fosse, come è, un modo intollerabile di lasciare stordita una intera cittadinanza, di tendere continue imboscate al normale svolgimento della vita dei suoi utenti e abitanti. Dentro questa realtà urbana che sembra sempre uguale a se stessa, ma che riesce ogni volta a inventarsi inediti metodi di sopraffazione, un posto in vetrina lo occupa senza dubbio il tema della mobilità pubblica. E dentro questo, il ruolo da protagonista riesce a ritagliarselo la linea 1 della metropolitana. Luogo denso di simboli che riesce a condensare sotto il giallo delle sue insegne il pantone di tutte le nostre collere di passeggeri: il grigio della pazienza, il rosso della rabbia, il nero del cinismo e della disillusione.

Non hanno neppure fatto in tempo, ieri, gli utenti del metrò, a leggere il bel reportage di Gigi Di Fiore che raccontava sulle pagine di questo giornale l'ennesimo servizio a singhiozzo tra Piscinola e Dante, che la circolazione tornava a fermarsi precisamente tra Piscinola e Dante. Più veloce di un quotidiano - più rapida, più forzuta di un giornale che pure, per definizione, è in edicola ogni giorno - la metropolitana riusciva ieri a gettare il cuore oltre l'ostacolo confermando e anzi rilanciando, come in una oscena partita di poker, tutti i suoi disagi indotti a passeggeri e cittadini con una grandezza quasi visionaria, aggiungendo un ulteriore tassello al mosaico. Perché qui non si parla solo di infiltrazioni d'acqua, o di atti vandalici dei gruppi di minorenni fuori controllo, e neppure di stop continui alla circolazione o di ridicole comunicazioni agli utenti a base di fogli di carta vergati a mano e affissi alla meno peggio sulle saracinesche chiuse delle fermate. No, la linea 1 della metropolitana riesce a farsi incredibilmente ricoprire perfino dalle incrostazioni delle indecisioni amministrative, a farsi disarticolare dai traccheggiamenti della politica e dei dirigenti aziendali, a cadere sotto i colpi di immobilità e insipienze, in una continua e infaticabile matematica delle mediocrità. Un esempio clamoroso, da questo punto di vista, che appunto si aggiunge ai disservizi quotidiani, è dato dalla mancata valorizzazione della pur tanto sbandierata metro dell'arte. Un modello nato con una vocazione alla grandezza che viene regolarmente disattesa. Un progetto che non riesce ad aprire le braccia neppure ai privati, neppure ai capitali che questi sono disposti a investire. Facciamo un Museo Aperto della Metropolitana avevano proposto, giusto un anno fa, otto grandi aziende italiane: Coopculture, Gesac, Ansaldo STS, Ferrarelle, Laminazione sottile, Metropolitana Milanese Spa, MSC Crociere. Ce ne occupiamo noi, avevano detto in coro, mettendo sul tavolo un investimento iniziale di un milione e mezzo di euro, impegnandosi poi a spendere altri ottocentomila euro destinati all'acquisto di nuove opere d'arte, da un lato, e allo sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche, dall'altro. 

Il progetto c'era, i soldi pure. Tutto bene? Sì, tutto bene, almeno fino a quando il boccino è passato nelle mani del Comune, come ha raccontato al Mattino il professor Stefano Consiglio, direttore del dipartimento di Scienze Sociali della Federico II e coordinatore del gruppo che aveva messo a punto il piano. Dopo un iniziale contatto, Palazzo san Giacomo aveva varato un tavolo di esperti presso il Gabinetto del sindaco con l'incarico di valutare. Dopo di questo, il vuoto. Silenzio totale fino a oggi. Le aziende chiedono notizie sullo stato di avanzamento della proposta e vanno a sbattere contro il muro di gomma di un inspiegabile immobilismo. Come nel sito archeologico di Ercolano messo a nuovo e manutenuto con i capitali investiti dalla Hewlett-Packard, insomma, anche a Napoli era stata offerta la possibilità di un modello di mecenatismo anglosassone, basato su capitali privati riversati in opere di pubblico interesse o utilità: un modello che funziona, che rende tutti contenti, i privati e il pubblico, gli utenti e gli imprenditori, che drena il lavoro e gli investimenti coniugandoli con la bellezza e la cultura. Una struttura di intervento rapido che non si fa sopraffare dalla burocrazia, che cerca forme di collaborazione tra pubblico e privato capaci di non inciampare nella foresta di leggi, norme, regolamenti. Il tutto particolare decisamente non trascurabile - a costo zero per la città, per l'amministrazione e per le istituzioni. Quasi un piccolo sogno, che rischia di trasformarsi in un incubo, visto che al momento, a parte la più che comprensibile irritazione che filtra dalle aziende lasciate sulle poltroncine ad aspettare in anticamera, non è dato sapere che cosa il Comune abbia intenzione di fare. Che cosa resta, in fondo a questo binario morto? Resta, tra le mani di una utenza sconfitta e di una cittadinanza avvilita, solo la sensazione di un tempo immobile, senza orizzonti. Resta percezione di appartenere, anche in questo caso e ancora una volta, a una realtà urbana ghiacciata, stretti in un lembo di vita i cui orli bruciano, senza sapere se e quando arriverà mai l'incendio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA