Napoli, il museo Madre ingabbiato tra cantieri e stendini

Napoli, il museo Madre ingabbiato tra cantieri e stendini
di Gennaro Di Biase
Domenica 5 Dicembre 2021, 10:28 - Ultimo agg. 6 Dicembre, 10:19
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Al Madre, gli specchi che nell'opera Spirits di Rebecca Horn riflettono i teschi del Cimitero delle Fontanelle non rappresentano la morte, ma l'impossibilità di liberarsi dall'eccesso di vita della città. Una vitalità definitiva, che scorre intorno al museo dell'arte contemporanea come un fiume in piena, e che corrode e trascina anche la storia e la memoria. La morte e il passato, da queste parti, non arrivano mai: vengono inglobati in una vita straripata, fatta di panni stesi come quelli attaccati al cancello del Madre, di discariche sempre fresche a pochi passi dall'ingresso del museo, di negozi con le insegne arrugginite a tre metri da palazzi e hotel di lusso, di cantieri Unesco in cronico ritardo, della chiesa di San Giovanni in Carbonara, preziosissima e violentata da scritte (come la fiancata del museo) e tossici. Intorno al Madre, insomma, Napoli è un fiume in esondazione, che non guarda in faccia a nessuno.

Non a caso, per una felice scelta artistica della direzione, la Napoli viva e trasandata che circonda il museo è esposta anche nelle sale. Un'opera di Mimmo Jodice (che chiude il percorso della mostra Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud) ritrae i palazzi distrutti quanto poetici del centro città. L'immagine è spezzata da un rettangolo vuoto al centro che rappresenta la distanza quasi impercorribile tra ciò che quei palazzi potrebbero diventare (l'utopia) e il degrado in cui affogano (la distopia). Lo stesso accavallamento, lo stesso cortocircuito tra arte e degrado, coglie il turista nell'atrio successivo da cui si ammira la finestra murata di un edificio fatiscente dalla vetrata lucida del Madre. E lo stesso succede su via Loffredi, davanti allo stendino agganciato al cancello del museo con tanto di mollette, panni stesi, paletta, teloni di plastica e volto di Cristo. Quanto alla discarica di immondizia selvaggia, a meno di 10 metri dall'atrio, svariati cartelli invitano, invano, gli incivili a non sversare lì.

Qualcuno ha anche scritto «non buttare spazzatura» con una bomboletta spray bianca sulle mura medioevali: un'infrazione commessa per invitare al rispetto delle regole.

Il paradosso definitivo, uno dei tanti che rendono questa fetta di Napoli una distopia per gli utopisti e un'utopia per i distopici. Al Madre, il museo di dentro combacia in più punti col museo di fuori. I palazzi decrepiti di vico Rotto a Carbonara - questo il nome di una delle vie che circondano le sale delle installazioni - dimostrano che la toponomastica, in questo caso, è anche una descrizione della strada. È l'arte contemporanea che si specchia nei palazzi che la circondano, come le capuzzelle della Horn.

 


Chi sostiene che il Napoli non abbia un «Colosseo» non ha mai sentito parlare i residenti di San Giovanni a Carbonara dei cantieri Unesco. Così, infatti, gli abitanti chiamano l'eterno scavo per la pavimentazione. «Pare che stanno costruendo il Colosseo, tanto del tempo che ci impiegano a finire i lavori sospira Salvatore D'Andrea Dovevano metterci un anno, per riconsegnare, ma siamo già quasi a 5. Gli operai sono sempre quelli, e lavorano a macchia di leopardo. Servirebbe più controllo su queste operazioni. Anche nella chiesa dovevano finire i lavori ad agosto, a quanto ne sapevamo, invece continuano». Il «Colosseo» di Napoli sorge infatti proprio di fronte alla preziosissima chiesa di San Giovanni in Carbonara, al momento impacchettata da lavori in corso. Le pareti e le scale esterne, però, sono vive, troppo vive: cioè sono un ritrovo di tossici e una tela per graffitari scarsi. La balaustra antica è un tavolino per siringhe e preservativi. C'è anche un parco, grande ma poco famoso, adiacente al complesso, con un albero transennato e a rischio crollo. Qualcuno, all'imbocco dei gradini, ha steso dei calzini misteriosi. Chissà se sono asciutti. L'Hotel di Palazzo Caracciolo (dove, come ricorda la targa, soggiornarono tra gli altri Mozart, Championnet, Murat e Totò), curato e lussuoso, risplende tra edifici dal fascino screpolato. Poco più in là, un vecchio pallone di cuoio rimasto impigliato lassù, tra i cocci del frontone dell'arciconfraternita della Pietatella adiacente alla chiesa, ricorda ancora il tiro alle stelle di qualche scugnizzo, ormai adulto, che distrusse il vetro anni e anni fa. Anche questa è una memoria: è memoria del degrado. Napoli non valorizza il suo passato perché non riesce a liberarsene.
 

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